Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Ho perso mio figlio

Ho trovato per caso il tuo blog e ho adorato il tuo modo di scrivere perché sento che tu percepisci le emozioni di chi sta dietro quelle parole. Non cerco conforto, ma solo di capire.

Noah mi ha lasciato al suo sesto mese e diciottesimo giorno di vita. Era già un bel pacioccone e mangiava tanto. Eravamo inseparabili anche perché non aveva nessun altro che me e sembrava davvero felice.

Disse la sua prima parola proprio quel suo ultimo giorno di vita. Io mi sento sempre triste anche se il tempo passa io continuo a tenerlo dentro di me e non riesco a lasciarlo andare. Lo amo più di ogni cosa al mondo, solo che non posso riaverlo.

Morte in culla l’hanno chiamata ma il mio cuore non ha pace. Nessuna spiegazione, nessun perché, solo il mondo intorno che continua e tu che pensi solo a come smettere di respirare, ma il tuo cuore continua a battere e ti senti assolutamente niente.

Essere mamma è stata l’esperienza più bella della mia vita. Vorrei soltanto capire perché.

Grazie anche se non risponderai come mille altre lettere che ho scritto.

La verità è che non ce la faccio proprio più a vivere e non esiste medicina per questo.

Tania

Ciao Tania, il tuo nome lo voglio lasciare perché è proprio bello come è bello il nome di tuo figlio. Ho fatto passare tanto, troppo tempo prima di risponderti perché sono stata vigliacca e intimorita davanti a un dolore così assoluto. Così come credo lo siano stati tutti quelli che hanno mancato nella risposta. Però vorrei tanto che mi credessi se ti dico che non c’è stato un giorno dal giorno in cui ho letto le tue parole, in cui non ci abbia pensato. Vorrei anche che mi credessi se ti dico che mentre provo a farlo sto piangendo ma non voglio lasciare che mi fermi dal provare a farlo lo stesso.

Non piango spesso per il dolore degli altri, lo faccio solo quando penso che quel dolore sia troppo intenso per essere svilito con le parole e ti giuro non è pietà, non è compassione, è la migliore umiltà che conosco.

Tu lo sai vero che hai già detto l’unica cosa che si può dire? Non c’è medicina.

Questa frase la disse il dottore a mia madre quando la sorella perse la sua bambina di tre anni. Io non c’ero ma me l’ha raccontato e non l’ho mai dimenticato. “Dottore per favore faccia qualcosa per mia sorella, per favore faccia qualche cosa.” Il dottore ha guardato il pavimento e le ha detto signora per questo non c’è nessuna medicina.

Tanti anni dopo ho trovato non so più dove ma ora è nel mio cuore, una storia di quelle credo zen in cui un padre che aveva perso il figlio prova a chiedere a tutti i più saggi del paese il perché e ognuno tira fuori una risposta. Perché questo era il destino, perché la vita è fatta anche di morte, perché adesso è una costellazione, perché ognuno ha la sua croce. Questo padre sconsolato continua a camminare fino a che arriva alla fine del villaggio dove c’è un vecchio vagabondo, che lo guarda e senza che lui dica niente, gli dice “Fa male. Fa molto male.” E lui un po’ si sente meglio non per la risposta ma perché si sente capito. E io decidevo che la psicologa l’avrei fatta così e non in un altro modo. Quindi scusami due volte, per l’attesa e per non saperti dire niente tranne che fa male, non me lo posso realmente immaginare, ma fa tanto, tantissimo male.

Voglio dirti di queste lettere, da dove viene questa idea. Da una lettera che ho letto di uno scrittore che mi piace e che per qualche anno ha tenuto una rubrica simile su un giornale. Ogni lettera fu sempre pubblicata anonima per scelta dell’autore, tranne una, la lettera di Michele, un persona che parlava di suicidio, che non si firmò, ma i genitori resero noto il suo nome tempo dopo. Ti metto qui la risposta perché nella sua incredibile semplicità mi emoziona tutte le volte.

«Mi dispiace molto che lei non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato da vivere (qualunque essa sia, sempre bella appunto perché imprevedibile come il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo».

Tania, anche io vorrei tanto fare questo e dirti di trovare un telescopio e di cercare i pianeti perché pensare all’universo è davvero l’unica cosa di cui mi fidi quando sento che tutto il resto non lo capisco più.

Una donna è madre ancora prima di avere un figlio, lo è quando comincia a volerlo e quando si pensa madre e quando desidera esserlo come non ha mai desiderato niente. Una donna è madre anche senza un figlio ma vorrei con tutto il mio cuore che potessi esserlo di nuovo, per sentire che se hai perso Noah, non hai perso la tua capacità di saper amare in quel modo che un figlio non può capire. Lo so che questa è un’ingenuità terribile da parte mia, lo so davvero. Non so nient’altro di te oltre a quello che mi hai scritto, non so se questo baratro di male sarà mai una cicatrice, ma vorrei che tu non fossi sola, che parlassi con altre donne che sono state vittime di questa esperienza e che vi possiate abbracciare e sentirvi capite guardando negli occhi una dell’altra e sapere che quel posto è il posto giusto in cui fermarsi per un po’.

Sai, sono qui quasi per miracolo e cerco di non dimenticarlo. Erano gli anni ’80 e mia mamma ci aveva provato tante tante volte, per dieci anni interi, perdendone anche uno che era quasi ma proprio quasi pronto e che aveva già un nome. La cosa strana è che l’ho saputo quando avevo l’età giusta per saperlo, ma anche prima ho sempre pensato di essere una da fratello maggiore. Contro ogni aspettativa, contro l’età, contro la religione, contro tutti, un giorno di Aprile la mia mamma ha deciso di giocarsi l’ultima carta senza nessuna garanzia, il giorno dopo Natale di quello stesso anno nascevo io e usciva sui giornali la notizia che la prima bambina nata a Roma con la fecondazione in vitro, sgambettava felice nella sua tutina e si sarebbe chiamata Olimpia.

Per favore Tania non perderti per sempre, sono le madri come te, le madri di cui ha bisogno questo mondo e ricordati che alla morte si può rispondere soltanto in un modo, le si risponde vaffanculo brutta stronza e poi le si risponde con la vita.

Aspetto di sapere ancora di te, una mattina presto di un qualsiasi giorno da qui a per sempre e che tu possa tornare a pronunciare quella prima e ultima parola, in un alfabeto nuovo, che non dimenticherà mai il resto ma che parlerà per sempre.

Olimpia

L’adolescenza è uno stato dell’anima

Ciao Olimpia, mi permetto di scriverti dopo aver letto una serie di tue risposte che mi hanno fatto profondamente riflettere e stare bene, mi chiedo cosa possa fare una semplice lettura di cose. Ho deciso di scriverti in un periodo in cui mi sembra di essere più ferma di quanto io lo sia sempre stata. Premetto che sarà difficile riassumere il tutto in poche righe quindi sicuramente mi dilungherò parecchio e mi scuso per questo. Premetto anche che sto pensando di intraprendere un percorso di psicoterapia ma insomma, mi farebbe comunque piacere avere un confronto con te.

Dicevo, un periodo un po’ troppo fermo, ho 23 anni, studio psicologia, magistrale indirizzo clinico, sono da sempre entusiasta e decisa su questo percorso, ho avuto mille dubbi che mi hanno solo fatto crescere, forse l’ambito universitario è davvero la sola cosa di cui sono convintissima e che rende la mia vita un po’ più stabile. Direi che anche in famiglia ho rapporti abbastanza solidi e positivi. Per il resto gran bel casino, ho vissuto un’adolescenza che qualcuno definirebbe non adolescenza, insomma mai stata una ragazza ribelle, molto ferrea sulle mie cose, un po’ mancanza di voglia di fare che i ragazzi a quell’età generalmente hanno. Una costante tendenza a selezionare la gente che doveva starmi accanto, cosa che ho sempre valutato positivamente, come se fosse una delle mie migliori qualità ma oggi, a 23 anni invece, sono con una grandissima voglia di fare mille passi indietro per poter dire “cazzo, falle quelle cose”, davvero potrei parlarti delle cose più stupide: fumare, bere, ubriacarsi, vivere una vita un po’ più spensierata del solito. Mi accorgo solo ora che la tendenza a selezionare gente nel corso degli anni mi ha portato praticamente a circondarmi di persone che non raggiungono nemmeno le dita di una singola mano con di conseguenza una ridotta possibilità di fare esperienze, di avere amici, comitive, di avere opportunità  e soprattutto la costrizione, spesso, a restare a casa. Dico costrizione, perché si è vero che siamo noi a dover cambiare le nostre vite ma è anche vero che spesso molto viene dalla gente di cui ci circondiamo ed io ora vivo la mia vita con i soliti amici di sempre, che davvero son pochissimi, senza mai uno spiraglio di novità e cambiamento.  

In tutto ciò mi sto ossessionando per non aver vissuto quel periodo di adolescenza che vorrei recuperare ora, ma che comunque faccio fatica perché è sempre la stessa identica situazione di merda. Tra l’altro, ti lascio immaginare l’ambito delle relazioni sentimentali, mai provato, mai vissuto ma solo ed esclusivamente immaginato. Mi è capitato di avere flirt con gente che apparentemente mi incuriosiva molto, moltissimo, mi piaceva fisicamente, mi comunicava una personalità che mi andava molto a genio e con cui anche da parte di questi stessi ragazzi spesso mi arrivavano segnali di interesse (che ovviamente si riducevano a sguardi e niente più, quindi vai a capire effettivamente) per poi scoprire che avevano relazioni tipo di 10 anni, insomma le classiche relazioni iniziate dal liceo che ovviamente non molli così per una sconosciuta apparentemente interessante. In questo periodo sono tipo in fissa con un ragazzo che frequenta il mio stesso corso e con cui ci sono stati vari sguardi, ogni giorno, a lezione ma appunto stalkerando un po’ ho scoperto che è fidanzato dal liceo. 

Ecco, questa è la mia triste vita, penso di aver bisogno di iniziare un percorso anche se effettivamente non so se qualcosa si potrà smuovere mai (considera anche che vivo in un paesino e non in un paese grandi dove le novità sono magari all’ordine del giorno. Probabilmente, anzi quasi sicuramente per il tirocinio post laurea mi trasferisco. Ti chiedo scusa ancora per il mio essere stata prolissa e ti ringrazio per l’attenzione. <3

C.

Cara C. quanto mi è piaciuta la tua lettera! Mi ha fatto pensare tante cose e spero di potertene restituire almeno una parte. L’adolescenza è uno stato dell’anima più che un momento preciso della vita. Anche se in effetti la parola viene dal latino ad+alere (alere vuol dire nutrire e oh scusa Prof. Milano grande star del ginnasio, questa l’ho cercata su Google ma altre cose me le ricordo) e adulto è il participio passato della stessa etimolgia, quindi insomma uno si sta nutrendo, l’altro s’è già nutrito e, pur essendo così come la conosciamo noi, “un’invenzione” degli ultimissimi secoli, i romani la davano per finita al venticinquesimo anno d’età, ma si sa che erano piuttosto pragamtici, sti rompicojoni. Poi non so dove, a questo punto credo nella mia fantasia, io mi ricordo un etimo diverso che la significava come “crescere con dolore“. Dico nella mia fantasia perché la mia di adolescenza, come quella di tanta, ma tantissima gente, è stata no difficile, ma proprio na merda. Un luogo mentale abitato da molta musica, molta solitudine, molta cupezza, molta rigidità. A 15 anni ero molto ma molto più adulta di adesso, pensavo di aver capito un sacco di cose, dicevo che non avrei mai esagerato con niente, non avrei mai tradito, non mi sarei mai fatta domande etiche perché ero quasi una moralista e che quello che pensavo, pur facendomi stare male, era ciò che di meglio potevo pensare. Anzi, mi ricordo un lungo pomeriggio con mio padre in cui gli chiesi cosa si doveva fare per entrare in marina e lui, pazientemente mi spiegò le varie tappe e io mi davo già sposata e ben sistemata in tutti i ranghi della vita al compimento del ventesimo, ventunesimo esagerando, anno di età. Ti lascio immaginare il coro di risate alla Nelson dei Simpson che mi parte dentro quando ci ripenso.

Anche io ho passato tanto tempo, metà della vita forse tre quarti, a scartare, scansare le persone. Tutte tranne quelle che non rientravano in certi canoni che in effetti manco ho mai capito quali fossero. Ero proprio leggermente antipatica, un po’ acidona, caustica mi disse una volta il fratello di un’amica e io ah beh questo sì che è un complimento! Invece non lo era. Mi ci è voluto tutto l’altro quarto per ammettere a me stessa che tutta quella selezione all’ingresso la facevo solo e soltanto perché avevo una paurona enorme di non piacere io, e allora questo no, questo no, questo nemmeno. So che puoi immaginare a quanta solitudine inutile mi sia condannata. Che poi inutile chissà, alla fine sono stati gli anni in cui ho deciso che volevo fa la psicologa, formalmente perché mi sembrava un mestiere interessante e trasversale, intimamente perché “dare buoni consigli” era l’unico ruolo a cui mi fossi attaccata nella cerchia degli amici. Ti lascio immaginare con quanta apparente presunzione rispondessi “ho letto i classici russi” alle amiche che mi chiedevano ao ma insomma st’estate quanti te ne sei pomiciati. Altro che che antichi romani, te pensa che rompicojoni potevo essere io. Ora non voglio insinuare che possa essere stato lo stesso per te, però ecco, la prima riflessione che mi è venuta da fare era questa qui.

Quando tu dici “mille dubbi che mi hanno solo fatto crescere” io penso che questa cosa bella la puoi applicare non alla scelta degli studi, ma a tutto il resto. Cioè io te li auguro proprio questi dubbi, è così che ci si innamora della vita e si impara a volere bene a se stessi. Bello essere Catone il censore, per carità, ma vuoi mettere con il poter essere Seneca?

La vita sentimentale di merda che mi racconti mi verrebbe da dire che è un modo astuto per spostare l’ossessione per gli anni persi, su l’ossessione incarnata per x o y con storie decennali iniziate al liceo. Del tipo se riesco a conquistare questo mi riconquisto i dieci anni persi. Da collega a collega in fieri te la butto qui per ricordare ad entrambe quanto sia potente e vivo e visibile, l’inconscio. Il radar che ci rimette nelle condizioni di riscrivere un capitolo che non ci è piaciuto, trasportandoci in cose che si somigliano tutte con la speranza che la prossima volta sarà la volta buona. Tipo una colonna sonora che ti dice ao meglio ciò che è familiare che ciò che è nuovo, almeno ti ci sai muovere, per cui meglio un dolore antico che un territorio nuovo. Capito, l’inconscio is a son of bitch proprio e lo freghi un pochino solo quando ci fai amicizia. Per farti un esempio becero di quanto sia vivo e lotti insieme a noi, io ancora fatico a comprare magliette che non siano a righe e vestiti che non siano a fiorellini, nelle foto da bambina indovina un po’ come ero vestita.

Per quanto riguarda il paesino piccolo, scusa Seneca ma su questo non ti do ragione, sono abbastanza sicura che è parte del problema, ma sono ancora più sicura che lo spostarti da lì sarà parte della soluzione. Mica tanto per il paesino in se, quanto per il paesino in te. Per la mappa che ti sei costruita dentro e che, oltre a proteggere, ingabbia. Una vita senza gli amici giusti è una vita molto più di merda di una vita sentimentale sempre di merda, certo la prima devi essere tu a sganciarti da questa linea dura e rigida in cui il dovere e il piacere finiscono per coincidere fuori mentre dentro fanno le risse.

Ti propongo una di quelle cosette da psi abbastanza carucce: prova a chiederti tutti i giorni per una settimana, a cosa faresti di diverso se potessi permetterti di vivere più leggera e divertita, se potessi avere di nuovo quei dieci anni fa. Di tutte le cose che ti verranno in mente scegli la più piccola ma piccola cosa concreta che puoi fare nel corso di quella giornata e falla. Mi raccomando cose mini, tipo che ne so, appendere un poster, prenderti un caffè corretto la mattina, ascoltare la musica a palla o fare le 3 a leggere i classici russi (No, questa no, stavo a scherzà). Magari ti stupirai sia delle cose che ti vengono in mente che delle cose che ti ritroverai a fare.

Crescere è molto fico, lo dico sempre perché ci credo molto e ci credo molto, credo, perché per me è stato ed è così. Ogni anno in più me ne sento uno in meno perché mi prendo con più leggerezza, non con superficialità eh, ma meno sul serio e con più affetto come si fa con un vecchio amico. Ogni anno in più lo metto nel conto degli anni che ho e mi sento libera di spaziare tra tutte le Olimpie che ho conosciuto, quella di oggi le contiene tutte e spero tanto di diventare una di quelle vecchie super gajarde che si tingono i capelli di viola e che parlano con gli adolescenti, senza pretendere di farci comitiva ma senza pretendere di saperne più di loro.

Mia cara, so tutti bravi a fa gli adolescenti quando il mondo ti dice che puoi farlo, però adesso dimmi se un vero adolescente non è proprio quello che si ribella a certe regole e fa cose senza permesso, col rischio di combinare un casino, col rischio di divertirsi. Pensaci, vuoi essere come tanti altri che poi mettono “la testa a posto” a trent’anni e quaranta si sentono vecchi o vuoi essere un sacco di cose che non pensavi di poter essere? Ci siamo capite.

La vita che ho ha iniziato a essere divertente indovina un po’ quando, proprio a 23 anni. Sì, quando me ne sono andata da Roma (come vedi il paesino conta e non conta, che pure le grandi città so tutti paesi uno dentro l’altro) e mi sono disordinata. Oggi si potrebbe dire che sia una persona vitale e sorridente, a quindici anni lo si poteva dire col cazzo. Sapersi divertire non deve essere rilegato a qualche anno, deve essere qualcosa che ti porti anche nella gara di liscio al centro anziani.

Ti auguro di andare in fissa per qualcuno che non possa compensare a ciò che senti di non aver vissuto, ma per qualcuno che ti somigli e abbia la stessa curiosità e lo stesso desiderio di poter danzare tra tutte le età, sentendo che l’unico controllo che vale la pena controllare, è solo quello che hai imparato a perdere. Ti auguro di iniziare presto a scrivere il tuo e solo tuo, tutto tuo, romanzo di formazione, sono sicura che sarà molto fico.

Ballare male, ballare senza vegogna, ballare dentro, ballare sempre.

Olimpia

P.S. La foto di copertina viene da un film che ti consiglio, Young Adult, che è un po’ la tua storia, solo che al contrario, ma so che ti starà simpatica e che la perdonerai. <3

Tutti i nuovi futuri ex dei nostri ex

Cara Olimpia,
ti seguo da un po’ di tempo e penso sia inutile dirti che ogni tuo post è una boccata di ossigeno per me, soprattutto in giorni come questo. Ho pensato molto se scriverti o meno, dato l’argomento forse un po’ scontato. Il fatto è che oggi è proprio una giornata triste. Oggi ho aperto gli occhi e sai, penso che nulla faccia male ed allo stesso bene come la consapevolezza della fine di un amore.
Tre anni fa ho incontrato questo ragazzo, è stato per me il famoso gradino che ti porta in vetta dopo una lunga salita fatta di ostacoli e pianti, di amori non corrisposti, di inverni freddi e spenti. È come quando si dice “quando sarai pronta incontrerai l’amore”, io l’ho incontrato perché ero pronta, ero guarita e ci siamo amati. Ci siamo amati e stretti per quasi tre anni. Non sono mancati i litigi, la passione che ci teneva insieme però ha vinto sempre. Anche quando forse sarebbe stato meglio chiudere, anche quando mi guardavo allo specchio piangendo e mi dicevo “non è un amore possibile questo”, alla fine ci amavamo così tanto.. e chi può fermare due innamorati?
Di certo non io.
Il punto è che poi dopo l’ennesimo litigio, dopo l’ennesima porta chiusa, ho detto basta. L’ho detto però con gli occhi gonfi e il cuore spezzato, l’ho detto voltandomi, ma con la mano quella porta l’ho tenuta socchiusa. Mi ha scritto per giorni, ci siamo rivisti ed era tutto perfetto, ma la paura di essere ferita ha fatto sì che io lo allontanassi ancora e ancora. Finché un giorno, circa un mese e mezzo, abbiamo chiuso per sempre.
E va bene, mi sono detta. “Tu meriti di meglio”, “Tu meriti un amore che..” citando Frida. Ma io lo amavo ancora e se l’ho fatto, l’ho fatto perché non mi sentivo amata, o almeno non più. Si era rotto qualcosa e questa volta raccogliere i pezzi non sarebbe stato sufficiente.
Quindi ho iniziato a ricostruirmi, pezzo dopo pezzo.
Ho dato tutti gli esami, sto scrivendo la tesi.
Insomma, ero serena. Serena nel sapere che se questo amore era forte come entrambi ci siamo detti, allora un giorno ci saremmo rincontrati.
Ma poi ieri ho visto una foto su Instagram con un’altra ragazza e boom, è crollato tutto.
Ho pianto così tanto che se sorrido non sento più la luce uscirmi dagli occhi.
Mi sento come se avessi sempre lottato da sola per un amore che era sincero a metà.
Lo vedo felice, lo vedo fare con lei quello che faceva con me come se io non fossi mai esistita, senza pensare che io sono qui e che vedendo certe cose mi toglie un pezzettino alla volta.
Quindi, anche se probabilmente non leggerai questa mail, già scrivendola io mi sento meglio, mi sento compresa, mi sento che qualcuno sa che questo a me fa stare male, che posso parlarne senza essere giudicata, senza ricevere una pacca sulla spalla come per dire “dai che passerà.” Io questo lo so. Ma vorrei solo avere la forza di alzarmi e dire: io valgo di più, io merito davvero una persona che mi ami, o almeno una persona che mi guardi e pensi “non voglio farla soffrire”. Perché io guardando quelle foto sono morta un pochino dentro.
Mi sono sempre detta di essere un fiore forte, che nasce nonostante tutto e tutti, eppure questa rabbia che sento mi fa sentire così triste, fragile, sostituibile.  So che non ci sono colpe, ma mi chiedo come si fa ad amare così tanto qualcuno e cancellarlo così facilmente. Io non ne sono capace.
Grazie per avermi ascoltata
Un bacio
Tua, C.

Carissima C.

Come sempre quando ricevo un complimento per quello che scrivo, ne sono felicissima quindi non è stato affatto inutile, grazie.

Veniamo a noi, sarò diretta: ma che cazzo! Quello che ti sta succedendo è di sicuro nella scala delle cose davvero antipatiche tra le cose antipatiche che il mondo ci mette a disposizione. Un vero tormento, il capitolo più amaro di qualsiasi telenovela che si rispetti: l’altra. La terribile, terribile altra. Colei, colui, etc. che ha preso il nostro posto, il nostro angolo del letto, il nostro lato dei pensieri, i nostri sogni, le mani che tanto hanno accarezzato e voluto noi. Mentre ci penso mi sento un poco male anche io e ti confesso mi sono dovuta fermare per sventolarmi con tutte e due le mani. A questo punto mi pare forse quasi corretto dirti che, dato già per sfatato il mito che gli psicologi so senza problemi, ci tengo a sfatare anche l’eventuale per cui sarebbero senza problemi sentimentali. Infatti si da il caso che questa psicologa qui sia in uno di quei gironi del purgatorio abbastanza simile a lei, signorina. Anzi, sto un girone sotto, quello in cui da un momento all’altro mi aspetto mi verrà consegnato da qualche messaggero incappucciato, un cartonato a dimensione naturale della nuova futura ex dell’ex, con un bel fiocco rosso e sopra una scritta enorme che dice: TIÉ.

Ovviamente colei la quale, sarà per forza milleduecentomila volte più, aggettivo positivo a caso, di me. Altissima, biondissima, levissima, graziossima, e anche se non dovesse esserlo avrà comunque tutta la mia disistima, le mie parole cattive con le amiche e forse ne avrà ancora di più perché penserò ma come è possibile. Potrebbe essere chiunque, fatta bene o fatta male, fatta in modo qualunque, in qualunque modo mi farebbe incazzare e sentire triste e sentire fragile e sentire sostituibile.

Perché sarebbe la verità. Sì, hai ragione, niente pacche sulla spalla e sì, certo che passerà, come a tutti, come sempre. Però finché non passa fa schifo e fa pure male.

Lui ha trovato un altro amore e tu stai cercando te stessa. Se fosse un film sapresti subito chi è il protagonista e chi lo sfondo. Tu hai dato tutti gli esami e stai scrivendo la tesi, tu ti stai chiedendo delle cose su che cosa significhi stare insieme, tu stai cercando di svolgere fino in fondo le tue emozioni e il lutto, tu hai addirittura, pensa, diritto a credere che Frida avesse le sue ragioni (Telenovela la sua che ciao zì, siamo tutte pivelle), o quantomeno a credere che magari non serve che sia meglio o che sia peggio ma che sia diverso, tu hai un futuro direi molto più ampio di chi lo restringe al quadratino di Instagram.

L’amore secondo me è tra i segreti tipo da dove veniamo, l’universo quanto è grande. Non di meno e non di più. Anche per questo credo sia così bello e così ricercato, temuto, parlato, cantato. Però l’amore a volte riempie così tanto che ti ferma pure. A guardare magari gli occhi più belli che bla bla bla, ma comunque ferma. Forse non solo ti meriti di ricominciare a sognare alto riguardo il prossimo sguardo sul quale ti farebbe piacere fermarti un po’, ma ti meriti proprio di avere tutta una serie di cose tutte tue che cominceranno da qui a, la butto lì, qualche mese. La vita dopo la laurea non fa meno paura della vita dopo l’amore, ma ha di sicuro un margine di controllo maggiore. (Sì lo so, sono cose da zia al cenone ma era per dire che crescere è molto fico).

A proposito di controllo, su una cosa voglio essere chiarissima: tolleranza zero verso i canali di fotogrammi, iconoclastia a palla e, come disse una mia amica “prima cosa cambia le lenzuola e se non fai casino bruciale pure“, cancella gli altarini se ce l’hai sparsi per casa, smetti di seguire, chiedi agli amici di dirti solo ed esclusivamente info di importanza vitale o anche niente ma anzi fai così che poi ti vengono le paranoie e chiedi tu, scatoloni a doppia mandata. Poi, punto più importante di tutti, tieni presente che ogni immagine in più che vedi poi te la dovrai scordare e tu adesso c’hai un sacco da fare, quindi resisti come fece Ulisse al canto delle sirene che bisbigliano ogni tot: Vieni qui a vedere quanto è felice senza di te.

Pensa anche a quanto sei stata triste tu, a quanto ti sei sentita sola anche se in compagnia, pensa a quello che pensavi da piccola, prima che l’amore si rivelasse per il gioco irresistibile ma un po’ sporco che è. Probabilmente la chiave per andare avanti sta lì, nel saper tornare indietro e credere che sia davvero ancora tutto possibile, tutto non scritto sulla pietra ma scritto sull’acqua.

Si può amare tantissimo e dimenticare, pensa che vale anche per te. Per farlo sarebbe meglio non sostituire niente prima di aver digerito tutto, altrimenti il rischio di rivomitarne almeno una parte è alto. Non te lo so dire se questa qua sarà la futura ex o quella di per sempre e non sentirti una stronza se non gli auguri la seconda. Mia cara C, invece noi come lo vorremmo il nostro futuro ex? Non ti dico oggi, nemmeno domani, ti do qualche settimana di tempo per fare questo gioco insieme a me e scoprire quanto non ci sia niente ma niente al mondo che possa allungare e allargare la vita, al punto di sentirti che sei più giovane di quello che sei, che puoi quasi andare sulla luna e diventare ancora ballerina di danza classica tutto insieme, che vivere queste cose in cui ti sembra di morire un po’.

Io lo vorrei simpatico e che mi viene a citofonare per chiedermi se vogliamo andare a fare i ponti di terra al parchetto per metterci dopo l’acqua sotto e vedere se scorre, come il mio primo amore, cosa di cui mi accorgo soltanto adesso mentre scrivo, tale bambino col caschetto biondo mio vicino di casa tra i 5 e i 7 anni, ma anche senza caschetto che non si dica che non sono flessibile nelle mie aspettative e anche scusami bambino, allora non ero pronta. Per il resto facesse la vita, quella nuova, quella che ci sta per capitare.

P.S. In realtà sempre quando vengo a sapere che un mio passato ha un altro futuro, pure fosse il bambino di cui sopra, sento una parte (non così grande mo’ siamo seri, ma c’è) di me, che dice Ma anvedi sto stronzo, non sa che s’è perso. Ecco forse loro cosa hanno perso non lo sapranno mai e alla fine nemmeno noi sapremo mai che cosa ci siamo perse, ma vedrai che ci interesserà molto di più quello che avremo guadagnato.

Ti abbraccio forte forte,

Olimpia

È possibile cambiare ciò che si è?

Cara Olimpia, ti seguo da un po’ e ti scrivo solo per sfogarmi e avere un piccolo momento di sostegno. Ho 21 anni e una vita di cui non sono per niente soddisfatta. Sembrerò banale lo so, ma la realtà è che non so neanche come si faccia a vivere per davvero, ciò che faccio la maggior parte del tempo è sopravvivere in una comoda routine rassicurante, non gli ingredienti giusti per migliorare e migliorarsi, mi sa.
Solo che non so nemmeno da dove potrei cominciare a cambiare la mia vita, mi rendo conto che il tempo trascorre più veloce di me, che mentre passa io sono sempre più sola, così chiusa dentro me stessa, e mi sento impotente di fronte alla mia stessa vita. Ho pochi (e pessimi) amici, un rapporto apparentemente buono con la mia strana famiglia (e qui ci vorrebbe un’altra lettera per raccontarla), anche perché mostro loro solo la parte che si aspettano da me, con una conseguente totale mancanza di comunicazione.
Posso dire di controllare e cercare di prevedere tutte i minimi aspetti della mia vita quotidiana, quando in realtà tantissime emozioni e pensieri sfuggono al mio controllo, con sporadici momenti di ansia e tanta confusione. Mi rendo conto di non stare abbastanza bene, di vivere in un modo che non lascia proprio il segno, con tanti problemi che probabilmente esistono solo dentro di me, ma sono pur sempre problemi… mi sento una bella sfigata sai?
Mi sono dilungata, quindi concludo dicendoti che vado già da uno psicologo, anzi andavo, perché dopo alcuni mesi senza apparenti miglioramenti ho mollato almeno per un po’, per capire se ha senso continuare, anche se adesso mi sento solo un caso con poche speranze e sono così spaventata, che tutto ciò è pure maggiore della mia voglia di continuare questo percorso, che temo non mi porterà da nessuna parte.
Infine, io non lo so se come si dice è sempre possibile cambiare da come si è, certe situazioni sembrano così confuse e complicate che pare davvero difficile intravedere un bagliore di luce.

Un grande (virtuale) abbraccio.
M.

Cara M., non lo so se sia possibile cambiare come si è. A dirla tutta ho grandi dubbi proprio sulla questione del come si è. Mi dispiace comunicarti che mi hai beccata in un momento in cui mi affeziono molto più alle domande che alle risposte, e lo so che sembra paradossale e anche un po’ ingiusto che io ti dica questo, visto che nelle mie intenzioni più nobili anche se un po’ ingenue, c’è sempre questa idea di poter condividere qualcosa che conforti, e le domande, si sa, raramente lo fanno. Ma tu mi porti proprio questa riflessione sul che cosa si è, dalla quale mi sento intimorita e attratta come dai buchi neri ecco.

Se fossimo in una situazione diversa da questa lettera ti chiederei di raccontarmi la tua vita quotidiana, dal che cosa vedi dalla finestra al come occupi tutte quelle ore lì che cerchi di prevedere nei minimi dettagli e che, direi proprio per questo enorme sforzo di tenere tutto in ordine, scappano da tutte le parti e un giorno finisce per sembrare esattamente uguale a quello prima e a quello dopo. Chissà se hai deciso di studiare, di lavorare, se ci stai pensando, se va tutto bene da quel punto di vista o se hai fatto una scelta che non ti rispecchia o che semplicemente non ti piace. Chissà soprattutto se ti senti innamorata, se lo sei stata, se speri di esserlo, se stai con qualcuno che non ti rispecchia o che semplicemente non ti piace. Ancora chissà questi amici pessimi perché continui a definirli amici, se hai mai pensato a quanto possa fare male non sentire di sapere che cos’é l’amicizia, perché sì l’amore, ma una vita senza amici è una vita con molte meno risate, banalmente. Banalmente poi, non c’è nulla di banale nel chiedersi ma come cazzo devo vivere, visto che insomma, se non è la vita fatta di vita, ma di che cosa è fatta, di polistirolo e nuvole?

Ieri qui a Roma c’è stata una scossa di terremoto che ha fatto un gran boato e ha spaventato molti. La sera durante un momento di lavoro si è riflettuto su quel primo messaggio che hai mandato a qualcuno per sapere come stava. La prima che ti è venuta in mente e anche quella a cui saresti voluto venire in mente tu e magari non è successo. Tutti dovremmo avere almeno
due o tre persone che riusciamo a vedere anche al buio e chissà se tu ce le hai o se quelle che pensi di avere non ti rispecchiano o semplicemente non ti piacciono.

Davvero non lo so se si può cambiare quello che si è, quel punto al centro di noi stessi che sembra avere un colore molto preciso che non ha il punto del cuore di nessun altro, quella variazione sul grigio che sembra ad alcuni di noi, chissà, chissà se a tutti, sembra scendere davanti agli occhi ogni tanto e far dire non come cazzo devo vivere, ma proprio ma io posso mai riuscire a essere felice oppure grigio topo vita di merda natural durante. Però so che buona parte di quello che siamo è anche in chi ci sta vicino e in che cosa facciamo delle ore che abbiamo a disposizione. La felicità è più un’abitudine che un raggio di sole. Tanti momenti in cui sono felice sono i momenti successivi a qualche sforzo, quindi momenti che partono per forza tristi, anche molto tristi, e a un certo punto cambiano colore. Ma se dovessi pensare a cose felici senza il resto prima, non mi viene in mente niente a parte l’abbraccio di un amico, di un familiare caro, di un amore, piccole grandi onde che ti vengono a prendere anche se sei fermo.

Quindi chissà che non sia proprio questo momento quello in cui cominci più che a dare tutta la responsabilità a come sei, a darne parte al resto, perché sul resto si possono fare un sacco di cose.

Anche andare dallo psicologo penso somigli in parte al resto delle abitudini che hanno a che fare con la felicità, c’è sempre un momento in cui niente sembra servire a niente, a volte succede perché bisogna trovarsi umanamente in qualche modo e non può succedere sempre, a volte succede che ci sembra che non succeda niente perché abbiamo così tanta fretta di arrivare a una risposta che ci siamo dimenticati di insistere sulla domanda. E la tua, tra tutte le domande, è la più difficile e la più necessaria di tutte. Non si risponde da sola con il tempo, si comincia a dipanare nel momento in cui accetti che anche la risposta sia la più difficile fra tutte. Se dovessi passare una giornata intera senza tenere in ordine niente come sarebbe quella giornata? Puoi provarci, anche solo a immaginarla, cosa faresti in modo diverso o non faresti proprio, cosa mangeresti, a che ora andresti a dormire, cosa ti metteresti per uscire, chi chiameresti per sorridere?

P.S. I cambiamenti epocali hanno la velocità dei ghiacciai più che degli tsunami, ma non se hai mai visto un ghiacciaio, una volta che s’è spostato col cavolo che si sposta di nuovo, eppure è sempre e solo acqua.

P.P.S. Ti lascio qui una cosa scritta tempo fa che mi hai fatto tornare in mente, su quanto possa essere utile sentirsi degli sfigati, chissà che non possa rispecchiarti o semplicemente piacerti.

Un abbraccio anche in questo periodo di abbracci comunque lontani,

Olimpia

La posta di Olimpia

Salve, rispondo subito all’invito a scrivere fatto dalla sua pagina. Sono una donna separata da quattro anni. Ho due figli grandi, entrambi all’estero per lavoro, dunque sono sola. Nella mia vita mi sono dedicata anima cuore e corpo prima alla mia famiglia di origine, poi al mio ex marito ed ai miei figli. Senza tirarla per le lunghe, ho dimenticato la persona più importante: me stessa. Sono vissuta in un mare di sensi di colpa sentendomi sempre sbagliata ed inadeguata. Insultata dal mio ex marito, con il quale peraltro lavoro, ho deciso di mettere fine alla relazione. Ho sofferto per questo, tantissimo. Perché ho pensato al fallimento e mi sono data la colpa di tutto. Ora, dopo tanto lavoro su me stessa, ho trovato un equilibrio, ma combatto ancora con la mia  solitudine. Ho cercato di conoscere altri uomini, ma disgraziatamente mi capitano tutti della stessa tipologia, e questo non lo capisco. Vede io sono una persona molto ingenua, non amo i giochetti, non mi nascondo, racconto tutto, anche la mia malinconia quando c’è. E basta una piccola attenzione da parte di un uomo per farmi cadere in trappola. Uomini che, dopo un po’, spariscono misteriosamente. Ora mi dirà, succede a tante…e sono d’accordo. Però, come si dice, ognuno di noi ha il suo dolore che non è mai inferiore a quello degli altri. Non credo troverò o crederò più ad uomo, l’ultimo l’ho mandato a quel paese pochi giorni fa, e non ho capito se lui lo sa. Perché, mi chiedo, la gente è così egoisticamente concentrata solo su se stessa e non pensa mai al dolore che può provocare agli altri? Mi scuso se ho fatto un po’ di confusione, ma in questi giorni sono abbastanza avvilita e forse il mio è uno sfogo inutile e senza senso. Quello che vorrei dire è che non è semplice ricostruire la propria vita dopo i fallimenti, almeno per me è così. Grazie mille. M.

Cara M. grazie per avermi scritto. Ricostruire la propria vita dopo un fallimento è come svegliarsi una mattina e scoprire che durante la notte c’è stato un colpo di stato e noi siamo il paese da riformare. Si tratta di uno degli eventi a cui la vita ci sottopone, più catastrofici e più edificanti. Non nello stesso esatto momento ma rimango convinta del grande potere rivoluzionario delle disfatte amorose. Le posso assicurare che non è lei ad essere fragile, è l’amore che è fragile. Più lungo è il nostro viaggio, meno ci è chiara la direzione, più pesante sarà lo zaino con cui ci relazioniamo con le nostre nuove conoscenze. In quel suo “raccontare tutto” ci vedo insieme un grande dono e un arma che può rivelarsi molto tagliente, perché così come noi abbiamo il nostro carico di partenze a vuoto e scivolate dalle cime, anche gli altri camminano per il mondo con il loro zaino ed è difficile, se non forse anche un po’ arrogante, pensare di ricominciare sempre tutto daccapo con la stessa purezza e la stessa energia che avevamo tre o quattro frequentazioni fa, o peggio (o meglio) ancora, qualche amore fa.

Essendo io una donna e sentendomi in empatia in qualità di essere umano più che di professionista, tenderei a convenire con lei sul fatto che gli uomini siano spesso dei mascalzoni (questa parola l’ho scelta con cura pensando a come li avrebbe apostrofati mia nonna) e magari invitarla a letture edificanti come Donne che amano troppo o Donne che corrono coi lupi, entrambe non da buttare per carità, ma entrambi deresponsabilizzanti di alcuni aspetti cardine necessari ad avere una visione realmente edificante del disastro che siamo capaci di ritrovarci intorno. Potrei anche dirle che certo, esiste una reale differenza biologica, sociale e psicologica tra l’essere umano donna e l’essere umano uomo. Siamo infatti tutti provvisti del cervello rettiliano (sì, perché in comune con i rettili, proprio quelli) deputato alla gestione di affari importanti ed animaleschi come la territorialità, la conquista, le reazioni di attacco e fuga, la competitività e altri mostri umani sebbene striscianti. Questo magari le potrebbe servire per accettare il fatto che tutti possediamo un nucleo ingovernabile che mira solo a non divenire preda e non soffrire. Con questo nucleo intenso e primordiale non permettiamo a nessuno di essere realmente più importante di noi o, se lo facciamo, ne paghiamo un costo. Come nel suo caso, in cui come mi racconta, si è sempre data da fare solo ed esclusivamente per gli altri e non è stata ripagata con la stessa moneta. Lo ha fatto, ci è riuscita, è stata senz’altro molto coraggiosa, però appunto ha dimenticato se stessa. Forse le sta capitando quello che capita a molte, forse a tutte, le persone quando si entra nel terreno sdrucciolevole delle cose dell’amore. Sta ripetendo un copione relazionale nel quale per motivi che non posso conoscere da qui, si sentirà da una parte sicuramente molto in difficoltà e frustrata, ma dall’altro è probabile che una parte di lei la spinga verso questa ripetizione per un motivo terribilmente semplice. Perché le è familiare. Già, siamo strani animali, per i quali il cambiamento è sempre auspicabile e temuto. Nel cambiare copione relazionale infatti siamo costretti a sacrificare qualche cosa, a leggere gli eventi passati sotto una luce diversa, e vedere ciò che siamo e facciamo sotto una luce diversa.

Solo attraverso questo compito amaro è realmente pensabile costruire delle modalità di selezione e reazione diverse da quelle che in passato non hanno funzionato e permetterci di essere felici in due. Glielo chiedo sperando di non risultare indelicata, ma è possibile, cara M., che in tutti questi anni lei si sia incastrata in un ruolo che le sta stretto ma che non riesce a cambiare? Sarebbe possibile anche pensare che finché cederemo alla dolce (e rabbiosa) tentazione di dare tutta la colpa alternativamente a noi stessi oppure al mascalzone di turno, rischiamo di finire condannati da noi stessi ad una sorta di auto compiacimento doloroso e cinico sulla non possibilità di redenzione o anche solo di miglioramento del benessere percepito quando decidiamo di dedicare il nostro cuore a qualcuno? Glielo chiedo e me lo chiedo, anche se me lo chiedo spesso, ma non è mai abbastanza.

Sarebbe possibile che io oggi qui dal mio pc sulla scrivania la inviti a provare a ridefinire il concetto di colpa secondo i termini di responsabilità? Come se dovesse essere madre severa ma giusta della sua parte bambina in cerca di un luogo sicuro in cui abbandonarsi ed essere se stessa e provare a individuare quali sono i nodi che sistematicamente le capita di affrontare. Come le capita di sentirsi e sopratutto qual è questa tipologia di uomini che poi la abbandonano. La invito a questa riflessione che avrà sicuramente fatto lei stessa innumerevoli volte, ma il punto di osservazione attraverso cui osserviamo gli eventi è più importante degli eventi stessi.

Forse ognuno di noi prova a riscrivere sempre la stessa storia che forse è iniziata nei rapporti che abbiamo avuto con i nostri genitori, che forse ci hanno condizionato, insieme a tante altre variabili, nella direzione dei nostri spostamenti, spingendoci a lottare per un finale felice di una favole che finisce sempre in modo triste. Forse se davvero pensa di non riuscire a uscire da questa che sembra a tutti gli effetti una trappola, può prendere in considerazione di raccontare la sua storia a qualcuno che faccia il mio mestiere e che le possa fornire una visione esterna di alcuni angoli che al nostro sguardo interiore rimangono sempre e per forza in ombra. Non si tratta di essere incompetenti con se stessi, piuttosto di arrendersi all’evidenza che l’amore è una forza troppo trasversale e troppo umana per sprecare le nostre energie vitali a cercare di combatterla o di farne a meno. Se c’è un invito che le posso fare, per quello che possa contare, è quello di non farsi trascinare dal cinismo ma di provare ad assumere una posizione più scettica nel momento dell’incontro. Con questo lungi da me la promozione della freddezza emotiva, ma un piccolo memorandum di auto protezione. Perché lei ha ragione, nessuno bada al nostro interesse più che al proprio, certe volte non lo facciamo nemmeno noi stessi, ma su noi stessi possiamo invertire rotte, sul timone degli altri è uno spreco di vita pensare di voler avere il controllo. Chi va via, va via per salvare se stesso, parti di se stesso, aspetti di se stesso, non per distruggere le nostre. Quella è soltanto una naturale e dolorosa conseguenza, non la conseguenza di un’azione malevola nei nostri confronti. Però l’amore è sempre una scacchiera, anche nella più dolce delle favole.

Forse c’è qualche altra situazione dalla quale non volendo si “distrae” tenendosi occupata in relazioni poco appaganti, qualcosa che le sta più a cuore risolvere, forse qualcosa che è più difficile da risolvere della nuova ultima sconfitta mascalzoniana. Sa, se lei fosse una mia amica le farei i miei più sentiti complimenti per aver cresciuto due figli indipendenti che saranno pieni di affetto per lei e con prospettive all’orizzonte, per essersi presa cura della sua famiglia, come la sua famiglia si sarà presa cura di lei quando lei non poteva farlo da sola, per essersi presa la responsabilità di compromettersi in un matrimonio e la lucidità per tirarsene fuori quando le faceva troppo male. E le direi inoltre, è proprio sicura che lavorare con il suo ex fallimentare marito non sia uno stillicidio quotidiano al quale non sarà di sicuro facile rinunciare visto che parliamo di lavoro, ma forse necessaria come mossa per ripartire più profondamente dai suoi desideri e da ciò che prima che la vita la deludesse pensava dell’amore. Le sembrerà sciocco, ma credo che sia sempre la parte più semplice e indifesa di noi quella che va sempre verso l’energia dell’amore, la stessa che viene ferita, la stessa che a volte non comunica con altre parti più adulte che ognuno di noi. Una parte che vuole essere abbracciata e rassicurata come in quei filmacci americani in cui qualcuno dice che andrà tutto bene, perché per quanta evoluzione, cultura, scienza e via dicendo all’infinito, tutti quanti abbiamo bisogno di qualcuno che ci abbracci e ci dica che andrà tutto bene.

Dalle ricostruzioni come si dice sempre, si comincia sempre con un passetto, un mattoncino, un minuto o anche tre minuti di una canzone che le piace molto. Si regali quei tre minuti e la possibilità di non tagliare fuori dalla sua vita un’emozione così bella, ma di regalarsi degli occhiali nuovi con i quali osservare il mondo, e l’amore.

P.S. Se dovesse fare un buon incontro me lo faccia sapere, sono sempre felice di sapere che lì fuori c’è gente che non si arrende al qualunquismo relazionale, anche e sopratutto, nonostante i fallimenti.

Olimpia

Come ci si riprende da un cuore spezzato?

Ciao Olimpia,

come sempre provo tanta gioia nel leggere i tuoi post e mi ispirano molto le cose che pensi. Spero che tu stia bene.

Sono quella che era stata un’infinità di tempo con un ragazzo meraviglioso ma che non amava davvero, e poi era riuscita a lasciarlo.

Dopo un anno, la situazione per fortuna è cambiata e mi sento più tranquilla e più aderente ai miei veri sentimenti, ma altri problemi sono sopraggiunti.

… Come ci si riprende da un cuore spezzato?

Mi sono innamorata per davvero stavolta… e lui mi ha ricambiato! Tanto quanto me. 

Ho vissuto la bellezza e le emozioni che avrei voluto vivere per una vita intera. Ho cambiato i miei piani per questo nuovo lui.

Lui è perfetto, veramente.

Tutto di lui è pieno di bellezza, dentro e fuori. E anche le cose che di lui sono imperfette, sono perfette abbinate ai miei difetti.

Sono stata talmente innamorata di lui che dopo anni di incertezza ho sentito per la prima volta di essere felice senza alcun compromesso, senza alcun dubbio, e che avrei dato tutto per lui, perché lui era ciò che volevo e mi sembrava incredibile anche solo poterlo immaginare. Ho sentito per la prima volta che tutto, tutto aveva un senso.

Wow.

Sai quelle intese perfette? Emotiva, mentale, fisica. Una roba mai vista prima.

Eravamo elettrizzati al solo incontrarci, al solo parlare. Non riuscivamo più a staccarci quando ci abbracciavamo. Trovavamo fuoco e sorpresa in ogni nostro incontro. Facevo viaggi mentali incredibili sul nostro futuro. Eravamo pieni di idee. Faremo questo, faremo quell’altro.

Ma lui appena mi ero illusa, mi ha detto che preferiva restare con la sua fidanzata di sempre. Che ha capito che insieme “vanno d’accordo” e che “ci tiene a lei”.

Sì perché il nostro amore è nato clandestinamente… Con una naturalezza che non poteva essere fermata.

E da allora, circa un mese fa, con una freddezza impressionante, è sparito.

E da quando se ne è andato la mia creatività si è bloccata.

Se faccio qualcosa per provare a fare stare bene gli altri, cerco di metterci molta cura. Ma non mi dà niente di così profondo, è una sorta di senso del dovere che mi dà una serenità leggera.

Mi circondo di attività ripetitive e razionali e discorsi asettici, tanto la gente è spaventata dalle passioni e non vuole parlarne più di tanto.

Passo il tempo senza riuscire a staccarmi da quel momento. Se riesco a pensare ad altro, prima o poi, la notte, o la mattina, il pensiero ritorna lì.

A volte ripenso anche al mio ex di sempre, perché l’intimità che ci legava era unica e vorrei potergli parlare. Ma è una cosa diversa. Lo rispetto e lo amo ancora, in una maniera diversa, a un livello diverso.

Penso sempre che lui -il nuovo- tornerà prima o poi perché so che lui era felice con me, ma è legato alla sua fidanzata anche se con lei non è così felice. Me lo diceva lui stesso.

Cerco di stordirmi di cose materiali e immateriali che possano ridarmi per un attimo quella sensazione così forte, ma alla fine mi ritrovo a fare in loop cose che so già che non mi daranno quella sensazione.

Fatico ad addentrarmi in nuove canzoni, nuove attività, nuove conoscenze. Mi manca la progettualità, la voglia di scoprire.

Si è bloccato tutto quando lui se ne è andato perché ho sentito che qualsiasi altra vita sarebbe stata uno spreco di tempo.

Fatico a progredire perché non voglio progredire.

Mi rivedo in lui, nell’incapacità di lasciare la persona a cui si è stati legati per anni. Ci è voluta la disperazione per lasciare il mio fidanzato di sempre e non mi aspetto che per lui sia diverso. Forse non la lascerà mai.

A volte riesco a pensare ad altro, è questione di tempo, e di scacciare via le nuvole.

Però io le voglio un pochino queste nuvole, perché mi ricordano che se le scaccio poi perdo qualsiasi speranza di riaverlo indietro.

Non voglio andare avanti, liberarmi dei suoi ricordi e della consapevolezza di essere ancora vivi, da qualche parte.

Non voglio ammettere la sconfitta, non voglio lasciare andare la cosa più bella e assurda che mi sia mai successa.

Come farò ad essere felice di una gioia minore?

Davvero si fa così? O dovrei in qualsiasi modo più o meno immorale convincerlo a ritornare?

Un abbraccio da un’anima solo apparentemente triste, ma ancora felice, se si ricorda di essere stata amata e di poter amare.

Vorrei vivere di amore, è mai possibile?

Vivere dando e ricevendo amore?

Sento che non c’è vita se non posso urlare TI AMO a qualcuno che amo davvero! E quel qualcuno è lui!

E se non è lui, avrei voluto disporre del tempo necessario per capirlo, anziché vedere tutto morire di colpo, sul più bello, prima ancora di iniziare davvero. Questa cosa mi dà tantissima frustrazione, la trovo inaccettabile, non riesco proprio a mandarla giù.

Perché due persone che si amano non possono stare insieme?

Grazie di cuore per aver ascoltato tutto questo.

L.

Cara L. nella mia piccola esperienza non credo di essere mai stata così colpita nel profondo e allo stesso tempo non mi sia sentita così povera di parole come davanti a questa circostanza. Ora è domenica pomeriggio, il tempo fuori è di quel grigio metà inverno, non penso pioverà, ma sono sicura che da qualche parte, in questo momento, forse nel nostro palazzo, nel nostro quartiere o forse saremo noi a farlo, e ci commuoveremo per la tenerezza che ci hai messo tu nel chiedere e spero anche per quella che proverò a metterci anche io nel risponderti. Uso questa parola dopo averci pensato un po’ e averla scelta tra alcune altre e dopo averla allontanata quanto più possibile da un’altra parola, insieme la più voluta e la meno trovata, la verità. Solo con coraggio e senza verità possiamo osare trasformare un momento in parola, sapendo che per un cuore spezzato non c’è e non ci sarà mai LA parola.

Sì, so di quelle intese perfette e sì, so anche di quelle intese perfette che poi si rompono e ancora sì, so anche una cosa più feroce, cioè che certe intese perfette che poi si rompono, si ritrovano in qualche altro luogo e spazio e con una persona diversa. Sono dispiaciuta e insieme contenta per te che tu possa fare parte di coloro che sentono il cuore spezzato. Non è un’esperienza per tutti, è uno stato di disgrazia così universale eppure sentito come se fosse estremamente unico ed esclusivo e che nessuno su questo maledetto orrendo pianeta, possa mai capire che cazzo stiamo provando e che nessun balsamo sempre su questo maledetto orrendo pianeta, possa mai lenire quella voragine, tranne l’amato che sentiamo perso. Qualche anno fa sono capitata nel Museo dei cuori infranti, si trova a Zagabria ed è il posto in cui ho visto più gente piangere tutta nello stesso momento. Si tratta di un posto piccolino in cui sono collezionati tanti oggetti arrivati da tante parti del mondo. Ogni oggetto è stato donato da qualcuno che ha avuto il cuore spezzato e aveva un valore simbolico speciale legato a quell’amore. Sotto ad ognuno una breve didascalia in cui chi l’ha mandato al museo racconta la sua storia e il perché di quell’oggetto. Qualche giorno dopo durante quel viaggio sono arrivata a Sarajevo e feci caso come in un altro museo, uno sulla guerra di quel paese così bello e così ferito, le persone mantenevano un austero silenzio composto. Attento, partecipe, riflettuto, ma composto. In quel momento ho realizzato che avere un cuore spezzato è un dolore che appartiene a una galassia diversa, nella quale anche i migliori tra noi umani, sebbene riusciamo a distinguere con tutta la ragione di cui siamo dotati, che non ne moriremo e che oh signore se esistono ben peggiori calamità che diamine, ecco in quel momento sentiamo nettamente che qualcuno ha spento la luce del mondo e che possiamo solo trascinarci lì dentro, ciechi, nudi nell’anima, soli. Le persone sono sempre morte e hanno ucciso per amore, per amore è stato fatto di tutto e di tutto è stato distrutto. Quando mi ci metto a pensare a quanto sia ovunque vorrei dire a tutti quelli che come te si chiedono se solo di amore si possa vivere, che certo, solo di amore si deve vivere. Il problema è che il sentimento è talmente tanto più grande di noi, che come diceva mi pare addirittura qualcuno di molto famoso, se vabbè adesso una vita, per capirla forse, nemmeno, chissà, settanta volte sette.

Domenica scorsa parlavo con degli amici proprio di questo argomento, perché a questo punto credo la domenica contenga una malinconia speciale da dedicare a coccolare certi pensieri e ti riporto in ordine a caso, qualche loro escamotage trovato in giorni che somiglieranno a quelli che vivi tu. Sono parole di persone a cui voglio bene e so che ognuno ha parlato raccontando momenti vissuti davvero e li ringrazio per essere qui a darci una mano.

-Sono andato a bere o per festeggiare o per deprimermi meglio. Il giorno dopo butto tutto tranne le foto perché sono pezzetti di vita

Vorrei dire di aver fatto subito qualcosa, ma la verità è che quando ho avuto il cuore a pezzettini sono rimasto per settimane nella zero voglia di vivere

– Quello che mi dà più soddisfazione è la disposizione dei mobili: stravolgendo casa ho come la sensazione di spostare la mia vita

– La cosa più nonsense fatta dopo è stata pensare che si sarebbe aggiustato e invece è ancora in millemila pezzettini

– Mi aiutò molto un’amica saggia con cui scambiavo messaggi saggi e un momento catartico fu una sbronza spettacolare che mi fece rischiare di essere arrestato tre volte in mezz’ora

– Ho più di 300 paia di scarpe

– Dopo una rottura in genere mi pongo degli obiettivi altissimi. Se non è vero che aiuta a dimenticare il dolore, perlomeno non perdo di vista la mia vita e posso essere soddisfatta di qualcosa

– Ero più giovane e portavo i capelli lunghissimi. Mi rapai a zero

-I capelli. Però sempre dopo un po’, l’inizio è sempre fatto di canzoni tristi e Nutella

-Mi sono cancellata da i social per un mesetto e sono andata una settimana nella mia città preferita, da sola

– Io mi sono segnato in palestra, ogni tanto ho paura di rimanere fermo anche se mi sto muovendo, ma ora sono qui e mi sento bene

-Cucinarmi cose non sane, ascoltare musica assordante in biblioteca, girare in bici all’alba, prendere un cucciolo

-Tinder gold

-All’inizio mi butto nel caos di tutte le feste e voglio perdermi tra gli sconosciuti, poi mi chiudo a riflettere sul senso della vita e ritorno piano a viverla

-Ho sfogato la mia rabbia distruggendo un mobile che avevamo preso insieme, ho fatto un viaggio in treno di un mese, ho fatto volontariato in carcere

– Musica classica è ottima ma roba importante tipo Mahler, Berlioz, Schubert, evitare le vecchie foto per almeno due mesi, leggere le poesie di Franco Arminio

-Andare a trovare gli amici lontani. Sono stata lasciata mercoledì, giovedì ho prenotato un volo

-Le pippe regà, ma proprio a perderci 2/3 diottrie a settimana

-Camminare, camminare, camminare

Come vedi le risposte a cosa ci si possa fare con un cuore spezzato ci sono e sono tante, però diciamocelo, nessuna tra queste ti ha risposto come avresti voluto, spero però ti abbiano strappato un sorriso anche se agrodolce. Io credo in poche cose in generale proprio nella vita, solo perché crescendo mi pare vedere che più io conosca, meno sappia. Quello che mi piace è pensare all’amore come appunto questa cosona gigantesca che permea la vita di tutti noi, anche degli apparentemente più intangibili alla questione, e in quanto cosona gigantesca, anche materia con la quale uno nella vita impara in tanti e vari modi, a vedere sempre diversa ma mai qualcosa di cui si possa fare a meno. Diciamo che se ci fosse un’accademia del saper avere a che fare con l’amore, ognuno di noi avrebbe il suo scudetto di bravura o di miseria. Qualcuno si ferma per sempre alle basi dell’asilo, in cui tu mi tiri i capelli, io piango, nessuno si spiega, oppure alle elementari in cui la grammatica non è così misteriosa ma ogni tocco è magico e se ti piace qualcuno ti piace per sempre, poi c’è il livello superiori in cui forse diamo addirittura il peggio, tutto il borderline dell’adolescenza, le urla telefoniche, i perché io perché tu, perché chi è quella mignotta o quel coglione con cui ti ho visto scambiare messaggi, c’è l’università in cui ognuno pensa di averci capito qualcosa perché ha spesso scelto il suo indirizzo, la sua storia seria diciamo e ogni tanto si fregia da buon consigliere al tavolo con gli amici, c’è chi decide che non è sufficiente e si spinge oltre, si masterizza in amori aperti, amori lontani, amori dolorosi ma intensi, dolori con problemi da adulti, con problemi di soldi di case. Amori che vogliono essere portati sul piano spirituale del diamoci a qualcosa che non sia l’amore ma mi trasformo in fiore di campo grazie al corso da mille euro al minuto e così starò meglio. Poi le storie ci sbattono e risbattono in qualunque punto del percorso accademico in meno di un secondo e allora tutto ci sembri ricominci. In realtà tutto ciò che si può prendere dalla questione, va avidamente preso, perché è un mistero che somiglia a quello della vita e della morte, in realtà un cuore spezzato una cosa soltanto può fare: può sanguinare.

Tu hai avuto il tuo tempo per vivere una storia che forse non era come la volevi, voi avete avuto il vostro tempo, loro hanno avuto il loro tempo. Il tempo è una variabile interessantissima, contiene la verità più delle parole. Il tempo, i giorni, i mesi i sempre forse in cui dovrai avere a che fare con qualcosa che manca ma che ha dato. Come preservare questo amore, non con metodi amorali, apriresti solo un altro problema e comunque non servirebbe. L’amore non è un pezzo di piombo ma un poliedro a mille facce fatto di acqua e cristallo che non si ferma mai.

Prima di salutarti di dico altre tre cose, come se fossero un abbraccio che poi è una di quelle cose che un cuore spezzato sa ricevere senza fare troppe storie.

Una è una cosa magistrale ma non mia, cioè la risposta di un amico, un giovane collega che non è poi così sicuro di voler fare lo psicologo ma è una di quelle persone che evidentemente dovrebbe perché è preparato, puntuale e appassionato. Quindi lo ringraziamo tantissimo e invitiamo a non mollare anche perché sarebbe un peccato:

Secondo me aiuta riflettere un po’ anche su cosa sia effettivamente una delusione. Una mancata corrispondenza con un’aspettativa, una mancata occasione di vedere il frutto di un proprio investimento, spesso affettivo. L’emergere del senso di colpa per “come sono andate le cose”. Insomma, riuscire ad astrarsi un po’ da tutti questi attributi o elementi così pesanti delle relazioni, aiuta molto. Ripercorrere all’indietro la strada, non per soffrire o per piangere sul latte versato, ma per capire dove nasce la crepa. Certo per fare questo bisogna essere consapevoli del proprio livello di resistenza rispetto ai rimorsi e ai rimpianti. Ma è sempre molto utile pensare a quanto sia plurale questa vita e agli infiniti universi possibili in cui possiamo imbatterci per capire che la nostra sofferenza è importante sì, a volte fa così male da togliere il respiro o la voglia di respirare ma è tanto parte della nostra vita quanto il sorridere o il capire o l’emozionarsi per una poesia. Guardarsi indietro, ricordare la strada compiuta non per vedere da dove si era partiti, ma per vedere dove si è arrivati. Una volta un noto terapeuta mi disse: io quando lavoro con qualcuno devo sempre partire dalla metà piena del bicchiere, con la parte vuota che ce ne faccio? Certo, noi nichilisti avremmo pure molto da ridire ma il senso è questo: esisterà sempre una risorsa positiva anche nell’ultimo degli stronzi, una sua capacità particolare, una sua peculiarità che lo distingue dagli altri o qualcosa in cui riesce abbastanza bene. Da quello si parte o si ri-parte. Tu Olimpia ad esempio sai far vibrare le persone semplicemente con le tue parole, le fai riattivare, riaddrizzi le loro vie quando queste si storcono, prendi le parole e i loro significati e li trasformi in dialoghi in discorsi in cui molti possono rispecchiarsi e questa è praticamente la base di tutto il nostro pensiero. In definitiva, il compito più strano e complicato, tra gli altri, della nostra breve permanenza qui è quello di fare chiarezza tra tutta questa confusione, trovare un luogo e un tempo in cui riusciamo a stare con noi stessi e con le nostre idee, percezioni, riusciamo a conoscerle ed accettarle. Compito arduo. Concludo: a na certa a 16 anni me prende la botta di matto e decido di leggere Michel Foucault, “L’Ermeneutica del soggetto”. In una delle tesi centrali trovai un senso di sollievo e un nuovo compito, e cioè quando Foucault evidenzia come il famoso gnothi seautòn socratico (conosci te stesso che poi sarebbe conosci i tuoi limiti ma qui servirebbe un altro post) che fu stata la massima che per millenni ha guidato lo sviluppo della filosofia e quindi dell’ideale, non era possibile o meglio era per forza riconducibile dentro qualcosa di più grande ovvero epimèleia heautoù, la cura sui, la cura di sé. L’essere prima concentrati, con la sana dose di egoismo, su ciò che ci fa stare bene non solo come semplice “relief” dai vari dolori dell’anima, ma proprio ciò che ci realizza in quanto esseri umani.

Due la mancanza è nelle cose infinitamente piccole, ci sono cioccolatini che non riesci a mangiare, strade che non puoi percorrere, respiri che finiscono molto prima di quando dovrebbero, immagini che colpiscono come mitra alle spalle, non dico canzoni che non riesci ad ascoltare perché sarebbe ovvio, ma non ho mai visto nessuno rivivere e ritrovare così tanto di se stesso come dopo una rottura di cuore. In fondo forse hai solo trovato uno specchio che ti ha ricordato come saresti potuta essere se non fossi stata coraggiosa nel lasciare una storia in cui non vedevi l’amore e ora però ti tocca esserlo fino in fondo.

Tre, se davvero tu pensi che questo incontro abbia avuto a che vedere con l’amore, comportati con amore anche se è troppo tardi o se ti sembra che sia così. La rabbia, le gelosie, l’ombra busserà tutti i giorni e tutti i giorni potrai decidere fino a dove lasciarla entrare. Però tieni sempre a mente le poesie e i libri e le cose belle che parlano dell’amore e anche quella poesia di Michele Mari che non è manco così bella ma dice una cosa bella sull’essere due imbecilli, cercala, tieni a mente il blues nei campi di cotone, ascolta Dark was the night cold was the ground, adesso e pensa che sei vicina a persone lontane, che non conosci, che non hai mai visto, ma che ognuna a modo suo ha dovuto osservare il proprio cuore spezzato e dire e adesso che cazzo faccio. Posso dirti soltanto questo mia cara L. quando ho paura della morte guardo i documentari sull’universo, quando ho paura che l’amore non sarà mai più per me per sempre, guardo le parole di chi ha parlato di amore e penso che un cuore spezzato è un cuore che soffre, ma un cuore che soffre è un cuore che può creare, perché nessuna bella frase è mai nata da nessun giorno perfettamente felice. Nel frattempo fatti cullare da questa malinconia come farebbe un piccolo tronco solido ma perso nella marea e sbattuto dalle onde che non si fermano nemmeno un secondo ma mentre ti sbattono, ti trasportano.

P.S. Sto pensando di organizzare delle riunioni per cuori spezzati, non so ancora i dettagli, so solo che c’è bisogno di un luogo per questi momenti, dove tutti capiscono quello che stai dicendo, come quel giorno in cui non volevo proprio uscire perché mi sentivo di merda e una mia amica di quelle care mi disse, ma che meraviglia, sto di merda pure io, ti passo a prendere tra 20 minuti. Quando sarà pronto sarai mia ospite.

Olimpia

Psicobiografie #3 Bruno Bettelheim

A questo giro ho pescato uno psi molto controverso, sulla cui vita esiste un mistero.

Se volete potete immaginare la voce della Leosini

Bruno Bettelheim (bettelaim) nasce a Vienna nel 1903, muore suicida a 87 anni. Di più, muore suicida dopo aver passato una nottata a bere whiskey e prendere medicine, asfissiandosi da solo con un sacchetto di plastica. Ebbene sì.

Su questa morte esistono varie versioni: qualcuno pensa fosse stremato dalle condizioni fisiche sommate alla scomparsa della moglie solo qualche mese prima, altri sostengono che nel gesto ci fosse una somiglianza con il suicidio di Primo Levi, circostanza a sua volta non così incontrovertibile. Di simile avevano di sicuro la disgrazia di essere rinchiusi nei campi di concentramento. Bruno nel ’38 passò un anno tra Duchau e Buchenwald, nel ’39 venne rilasciato sempre in circostanze non del tutto conosciute. Una volta libero riuscì a partire per l’America e ci rimase per tutta la vita.

Insegna Psicologia a Chicago per trent’anni, mentre lavora anche alla Orthogenic School, un istituto per bambini e ragazzi con disturbi autistici. Sarà proprio l’autismo l’argomento a cui dedicherà tutta la sua carriera, insieme allo studio in generale dell’età evolutiva. Nel ’67 pubblica il libro La fortezza vuota che diventa un caso editoriale. Espone la sua teoria sulla causa dell’autismo introducendo il nome di “madre-frigorifero”, ossia la strega maledetta che possiede ogni colpa. Il bambino si raggomitola su sé stesso lì dove trova un ambiente senza amore e quindi per migliorare deve essere allontanato dalla madrefrigo e fatto crescere in un ambiente confortevole e senza nessun regola particolare, tranne quella di non averne. I bambini dovevano crescere liberi da ogni forma di autorità genitoriale. Certo viene in mente che dopo l’esperienza dei campi di concentramento, i criteri di libertà non devono essere stati semplici da ritrovare, ma il punto misterioso non è tanto questo.

Nel ’97, sette anni dopo la sua morte, viene ne viene pubblicata una biografia di 500 pagine con il titolo “The creation of Dr. B” scritta da Richard Pollack. In questo librone vengono descritti crimini scellerati da parte di Bettelheim. Tanto per cominciare pare non si fosse mai laureato in Psicologia, non avesse mai e poi mai incontrato Freud nei circoli di Vienna, cosa che amava raccontare e addirittura non si era proprio occupato di autismo prima di arrivare in America, tranne una sola esperienza avuta con una ragazza di nome Patsy, che era stata affidata a lui e alla prima moglie e a quanto pare non fosse nemmeno autistica. Insomma ecco che Dr. B sembra diventare un mitomane di calibro. Secondo Pollack era stato tutto possibile nel momento della fuga in America dove il dottore aveva potuto reinventarsi un’identità senza il rischio di essere smentito. Nel libro si dicono cose anche molto più pesanti, cioè che l’apparente libertà offerta nell’istituto fosse in realtà molto spesso sostituita con un clima di violenze corporali forse anche sessuali e ancora che quasi nessuno dei ricoverati fosse di fatto autistico, ma si trattasse di persone con problemi comportamentali e di regolazione delle emozioni che miglioravano ma certo non si poteva gridare al miracolo della cura dall’autismo.

Sempre secondo l’autore la mitomania avvenne anche perché B era lui stesso stato dotato di una madrefrigo che, alla morte del padre, lo torturò con tanto silenzio e poco amore e anche perché era frustrato nella carriera, aveva scelto male e si era laureato con 12 anni di ritardo. Era dotato anche di un ammaliante uso del linguaggio e sapeva scrivere in maniera convincente, cose che lo aiutarono a rendersi credibile. Per sparare queste cartucce ci furono prima varie interviste alle persone che lo conoscevano, da cui l’unica verità su cui pare ci fosse accordo, era che sicuramente non era una persona a cui potevi credere su tutto e a cui piaceva romanzare le cose.

Bisogna anche dire che Richard Pollock aveva avuto un fratello internato nell’istituto, morto in un incidente misterioso. Pare che il Dr B avesse accusato tutta la famiglia di essere colpevole, dicendo che si era trattato di un suicidio. ORA, non credo di essere maliziosa nell’intravedere come un’ombretta di questione personale non ben risolta, dietro alla briga di 500 pagine. Ma si sa che spesso la verità è una bilancia che fatica ad assestarsi.

Forse è semplicemente stata una di quelle persone pazze in modo lucido, magari consapevole, magari di meno, che prese dalla loro visione hanno tirato castelli, o fortezze, di sabbia, che per un po’ sono andate bene finché qualcun altro non è arrivato a costruire con i mattoni.

Lo stesso giorno in cui lo trovarono morto in edicola usciva il Time con una copertina dedicata al servizio sul diritto alla morte. Ebbe tre figli con cui lui proprio lui che si era dato così da fare per la questione filiale, proprio non riuscì mai ad andare d’accordo.

Curiosità: compare nei panni di sé stesso nel film Zelig di Woody Allen, in cui il protagonista è proprio un uomo capace di prendere le sembianze di chiunque.

Eh sì, certe vite sono un po’ più strane di altre.

Olimpia

La posta di Olimpia – Vorrei arrabbiarmi ma non ci riesco

Cara Olimpia,

Ti scrivo perché questa sera nulla riesce a rendermi felice e in un loop di sensi di colpa (visto che non posso lamentarmi della mia vita) ti lancio un grido d’aiuto! Ti scrivo perché non riesco ad essere me stessa, non riesco ad “arrabbiarmi” come fai tu, perché sto sempre a pensare se è giusto o se no e che impressione farebbe agli altri…Quindi opto per una perenne calma gentile, mentre dentro mi sento bollire…Di ansia, rabbia, di tutto…Ma nascondo…Finché non esplodo ma sempre in privato! La verità è che da piccola non ero affatto cosi, ma col tempo mi sono scontrata con cosi tanti muri che ho imparato a moderarmi sempre di più, ma in questo modo è come se avessi una corazza di gesso che mi immobilizza!

Come devo affrontare questo disagio? Come posso riuscire ad essere me stessa con moderazione ma senza ingessarmi? Grazie mille e complimenti per la tua rubrica, per il tuo blog e per il tuo bellissimo lavoro!

S.

Cara S.,

è ormai da qualche anno che dico di voler fare anche a Roma quella che hanno chiamato “Rage Room“, cioè la stanza della rabbia. Forse ne avrai sentito parlare, o magari no. Ad ogni modo si tratta di un posto; pensato originariamente in Giappone, poi portato in Serbia, Stati Uniti e, se vado aggiornata, anche Milano, dove entri e spacchi tutto. Sì esatto, ci sono delle cose dentro tipo vecchie bottiglie, mobili da buttare e così via e tu entri con una mazza da baseball e appunto spacchi tutto. Nel mio progetto ognuno si può scegliere la colonna sonora che preferisce.

Personalmente poi provo sempre un certo senso di soddisfazione quando nei film il protagonista si ribella a qualcosa o qualcuno, facendo una scenata da vero capo retore e mettendo ognuno al suo posto, sfoderando un eloquio che guarda manco Gorgia con un copione di Shakespeare. Oh sì, ammettiamolo. Per quanto disdicevole sia alzare la voce e dire le parolacce e sbatacchiare varie ed eventuali oggetti presenti nella traiettoria della nostra ira, la nostra ira è una notevole fonte di energia, che racconta con meno pudore un nostro sentimento. Per quanto sappiamo non sia cosa giusta, se ci capita di imbatterci in una rissa, rallentiamo per vedere che succede. E così potrei farti vari altri esempi ma sento che ci siamo capite.

Alcune persone hanno una valvola di sicurezza come quella delle pentole a pressione, che funziona meglio di altre. Io penso alla mia bisnonna che era di poche e severe parole. Una signorona romana che a tavola il tovagliolo non te lo passava, te lo lanciava. Non l’ho mai conosciuta ma posso dirti con sicurezza che c’è qualcosa di lei che è arrivato fino a me. Ma genetica e alberi genealogici a parte, a volte succede come dici tu. Ci provi una, dieci, duecento volte, ma poi scegli la strada che ti costa meno fatica, anche se non è quella che preferisci. Come qualunque cosa, anche la rabbia se non la usiamo mai, dopo un po’ si atrofizza.

Probabilmente tendola tutta per te e vedendola scoppiare solo ogni tanto quando proprio non ce la fai più e lontano da occhi indiscreti che potrebbero giudicarti, hai piano piano cominciato ad avere paura tu stessa delle tue reazioni e pensi che se dovessi mai scoppiare in pubblico, sarebbe di sicuro un macello. La fregatura è che proprio conservando questa energia per i momenti in cui sei stremata, la vedi comparire in tutta la sua magnificenza.

Sì, se te lo stai chiedendo, questo è quello che si chiama circolo vizioso e appunto ci manda in loop. Che poi volersi lamentare di qualche cosa anche se formalmente ci sembra tutto a posto, non è un crimine, anzi. Magari invece andrebbe tutto meglio se ci mettessi un po’ più di quello che sei in quello che fai. Lo so, è dura pensare che per esprimere la nostra opinione dobbiamo correre il rischio di deludere qualcuno, di non piacere a qualcuno, persino a noi stessi ogni tanto. Ma ti assicuro che ogni perdita è commisurata a un guadagno, il guadagno di nuovi aspetti che non pensavamo di avere o di saper esprimere.

Come una gamba ingessata da tanto tempo, non possiamo pensare di fare subito la maratona. Bisogna iniziare a rimettere in movimento quella parte, ma con moderazione e con calibro. Per questo ti vorrei invitare a fare un esperimento e vedere come che ne viene fuori. Prima puoi caricarti pensando a tutte le volte che avresti voluto parlare ma non hai detto nulla e vedendo il monologo di Edward Norton ne La 25 esima ora e la scena al fast food di Micheal Douglas in Un giorno di ordinaria follia, oppure se preferisci va bene anche Verdone che fa l’italiano emigrato in Germania che ritorna per votare, sta zitto per tutto il film, fino all’ultima scena in cui manda tutti al tappeto.

Una volta che ti senti bella rinvigorita e con le mani che ti formicolano prendi un bel foglio e buttaci dentro tutte le invettive ingiuriose più scostumate che ti vengano in mente. Vale prendersela con chiunque e qualunque cosa, dallo stendino che col vento si chiude sempre, al vicino di casa che sente a palla Gigi D’Alessio. Scrivi senza badare alla forma, alla maiuscole e alla grammatica e sopratutto senza censura. Fermati solamente quando senti che hai finito le scorte di proiettili verbali.

Se ci dovessi provare gusto puoi anche farlo più volte, tutte le volte che ti senti bollire. Secondo me scoprirai che lì dentro c’è molta più capacità di incazzarti di quanto pensi ma meno rabbia di quanto temi possa esserci. Anche la rabbia, come tutte le tentazioni, ha bisogno di qualche concessione per fare sì che le si possa resistere. O comunque concedendotela in maniera libera e allo stesso tempo anche protetta, potresti capire meglio qual è la direzione in cui vorrebbe andare.

Una curiosità dal mondo Psi: esiste la Terapia dell’Urlo Primario, inventata da Arthur Janov, in California negli anni ’70. Secondo l’autore se ti tieni tutto dentro t’ammali (ovvio che qui potremmo annoverare una lista cospicua ma volevo essere severa e sintetica tipo la bisnonna) quindi devi urlare perché ti fa bene. Janov è diventato nome noto nella musica perché ebbe tra i suoi pazienti anche John Lennon (non so te ma io ce lo vedo che urla col gonnellino di foglie di castagno sulle scogliere del Big Sur) e la sua teoria ha ispirato il nome di ben due band degli anni ’80, I Primal Scream e Tears for Fears, ma pensa un po’.

Poi un’altra cosetta che magari può tornarti utile, se ti capita di voler dire una cosa per la quale pensi che qualcuno possa rimanerci male, prova a dire subito che ti dispiace pensare che quello che dirai farà dispiacere l’altra persona e che vorresti non dirlo, ma che lo dirai lo stesso così che casomai se ne possa parlare insieme. Può sembrare una sciocchezza, ma avvisare l’interlocutore che staremo per essere sgradevoli, è un modo per risultare meno sgradevoli, senza però rimanere in silenzio. Oh artifici della retorica, oh captatio benevolentiae, oh pizzico di paraculaggine se vogliamo!

Tante volte succede che smettiamo di dire di no perché ha i suoi vantaggi, però finiamo per occupare il ruolo degli accomodanti e non è per niente facile interrompere un copione che conosciamo a memoria. Se vogliamo costruire una nuova abitudine dobbiamo muoverci per passi così tanto piccoli che nemmeno noi ci accorgiamo di stare trasgredendo a quella parte più allenata di noi stessi, eppure così tediosa. Facendo piccoli variazioni sul tema disobbedienza alla gentilezza cieca, correrai non solo il rischio che qualcuno disapprovi, ma anche quello di finire in interessanti discussioni in cui ti riscopri ragionevole ma non indifferente.

Ti saluto con una frase di un altro autore del girone degli irosi, Emil Cioran, che diceva: Se obbedissi al primo impulso passerei le giornate a scrivere lettere di ingiurie e di addio. Le giornate tutte magari no, però quei cinque minuti quando ti prendono i cinque minuti, beh cara, secondo me sono tutti tuoi.

Un abbraccio,

Olimpia 

 

 

Contro il dominio della resilienza

La vita è quella cosa a cui per partecipare devi garantire l’iscrizione all’albo del dolore e pagare la tua quota, senza sapere a quanto ammonterà. Il dolore è quella cosa che ci cammina a fianco, senza sapere quando ci prenderà per mano e che ci rende fragili. Sì, fragili. Il contrario di resilienti.

Per chi ancora non lo sapesse, la resy, è un termine rubato all’ingegneria, per il quale certi materiali non si rompono con l’urto, ma incassano la botta, tornando alla condizione di partenza. Cioè se vogliamo rubare anche alla filosofia possiamo bussare anche alla porta di Cavallo Pazzo Nietzsche e tradurlo con ciò che non ti uccide troppo, ti fortifica. Oppure ancora possiamo fregarcene dei materiali e della filosofia, rimanendo fedeli all’etimologia, e dire che la resy è quella cosa per cui se casco dalla barca allora ci risalgo. Così, con nonchalance, praticamente da asciutto, senza scompigliare un capello, senza affogare un attimo, senza cagarmi sotto che magari non riesco a risalirci su quella dannata barca. Non c’è che dire, è una bella visione eroica questa che ci vede così granitici nel districarci dai dolori. Tutto un cadere da cavallo e risalirci graffiati ma intatti fuori e integri dentro, come se in pratica tutto il mondo ci dicesse che dobbiamo resistere alle disgrazie e uscirne fuori splendenti come coattissime fenici.

Ora io perché sono così contraria al diktat della resilienza, perché sono una rompicoglioni ()? Perché non sopporto i tatuaggi inneggianti al qualunquismo dai segni dell’infinito alle parole modaiole ()? Perché, sopratutto, mi dispiace, e mi dispiace in un punto molto profondo del mio cuoricino, che a botte di positivismo rischiamo di dimenticarci l’incredibile bellezza della vita, gloriosa proprio per il suo disordine, grandiosa proprio per la sua cavolo di caducità.

Tempo fa mi capitò un incontro con un eroe (i pazienti io li chiamo così) che venne da me dicendo che non aveva potuto dire a nessuno che sarebbe venuto da me perché se no avrebbero tutti pensato che era fragile (le parole precise furono in realtà “mezza pippa ar sugo“). E chiaramente non è stato e non sarà l’unico a paragonare una richiesta di aiuto a una dichiarazione di sconfitta. Ma la cosa vale ovviamente pure fuori dalle considerazioni sulla psicoterapia, vale in maniera trasversale, in tutti i contesti in cui la resy infesta la pianta della fragilità come ortica infestante.

Quello che rischia di succedere è che si avrà sempre più paura del dolore, anzi no, non del dolore, ma delle persone che lo provano. Si avrà sempre più paura dei tristi, dei piagnoni, degli scomposti, dei persi, degli scontrollati, dei perdenti. Paura di noi quando saremo simili a loro, quando saremo loro. Io credo che nel modo in cui sta resy ci viene prepotentemente proposta, si dimentichi sempre di onorare il momento di passaggio tra l’inizio e la fine di un problema. Come dire, una fiaba senza intreccio, obbligata al lieto fine.

Non è d’oro il finale, è d’oro ciò che sta in mezzo, la trama che al finale ti ci porta ma non ti ci catapulta come se il tuo dolore non avesse alcuna dignità. Tantissimo si può imparare dai momenti ardimentosi, ma non vedo come si possa pensare di arrivare alla cima senza prima aver scalato (nota del secchione, Cavallo Pazzo Nietzsche amava assai camminare sulle montagne e da sopra poi contemplare il panorama. Soprauomo, non superuomo perché aveva il pisello più lungo di tutti, così per amor delle parole).

Se non la finiamo di perdere interesse nel processo, rischiamo di demonizzare sempre di più i tempi del dolore, che sono lunghi come le ere, come tutte le cose che possono insegnare, dobbiamo prenderci il tempo per capirle. O per capire che non possiamo capirle e dagli stracci che ci sono rimasti, risalire sulla nostra piccola zattera di fortuna a navigare i tempi e le tempeste. Tenendo a mente che se mai usciremo dalla tempesta, non lo faremo rimanendo uguali a come ci eravamo entrati (semi cit del buon Murakami, che può piacere o non piacere, ma nel suo essere orientale, sicuramente smandruppa meno le palle con questa storia della fretta).

Abbiamoci pietà di come siamo fatti, portiamo rispetto ai tempi cupi, portiamo rispetto al modo in cui siamo fatti. Non di obiettivi aziendali da mettere sul tavolo a fine giornata, ma di carne, spirito e mestizia. E di fragilità, di morbidezza, di delicatezza. Siamo come gli scatoloni che trasportano cristalli con sopra l’adesivo, trascinati senza grazia da facchini troppo occupati per trattarci con i guanti.

Se ci togliamo anche la libertà di stare male e non vedere soluzioni, non ci togliamo solo l’occasione per parlare con noi stessi, ma ci tagliamo via proprio una fetta di vita. Anche da triste io posso sorridere ad un anziano che porta a spasso il suo cagnolino anziano pure lui, anche da triste io posso leggere una poesia e capirla, posso capire meglio il dolore del mondo, posso stufarmi di essere triste e cominciare a cercare il bandolo del matassone, tirando da varie parti, incontrando sempre nodi e ad ogni nodo fermarmi a riflettere o anche a piangere se è necessario.

C’è nel dolore sempre un momento di indicibile sconforto, di assoluto smarrimento. Ecco, credo che sia in quei momenti l’unica possibile rinascita. Più che dalle proprie ceneri, dalla foresta in cui ci perdiamo nella ricerca di nuova legna da ardere per tenere viva la fiamma dei giorni.

Fragile è chi pensa che essere fragili sia da deboli e chi vuole solo arrivare, senza prima concedersi di non conoscere la strada. Poi davvero non so voi, ma io preferisco essere nata fiore che essere nata acciaio.

 

Olimpia Parboni Arquati

Mai smettere di fumare

Quando finisce un grande amore non esistono messaggi per sapere come vanno le cose e non esistono caffè. Esiste solo la malinconia. 

Il primo giorno non è mai il più duro di tutti perché sei gonfio dell’adrenalina della grande scelta e sottovaluti il modo in cui le cose si svolgeranno. Pensi solo che hai smesso di fumare, come se non ci fosse né passato né futuro fuori dalla tua decisione. Al ciao come stai rispondi che hai smesso di fumare e se ti chiedi come stai, ti rispondi solo che hai smesso di fumare. Ma la verità è che stai di merda. O almeno io. Perché io è così che mi sento, come se il grande amore della mia vita mi avesse mollato, no meglio, come se io avessi mollato il grande amore della mia vita perché era troppo stronzo.

Sarà stato pure stronzo però…però ci amavamo. Sotto la pioggia e al mare, controvento e alle fermate degli autobus, dei treni, dei tram, della metropolitana quando ero molto triste, o felice. Ci amavamo nei bagni, sui divani, a tavola, ci amavamo in finestra. Ci amavamo quando faceva troppo freddo per amarci e troppo caldo. Prima degli esami, dopo gli esami, prima delle visite, dopo le visite. In mezzo agli amici e da più grande anche in mezzo ai parenti. Ci amavamo negli spazi piccolissimi degli aeroporti dove tutti si amavano tutti accalcati. La mattina presto, a metà mattina, a pranzo prima e dopo, a cena prima e dopo. Mentre bolliva l’acqua, per la pasta, per il tè. Ci amavamo quando avevo paura, quando non sapevo cosa fare della mia giornata, della mia vita, dei miei capelli, dei miei vestiti, delle mie scarpe, dei miei sensi di colpa e di quelli di responsabilità. Ci amavamo praticamente sempre, cazzo.

E allora perché ho smesso? Beh, ho smesso perché non ci amavamo e basta, ma ci odiavamo anche. Alle 3 di notte quando avevo solo 20 euro nel portafogli e finivo a fare la spesa al distributore, due Snickers, due pacchetti, un accendino Smoking. Per una sigaretta che poi sapeva solo di petrolio e fretta. Al risveglio quando facevo colazione con caffè e tosse, quando mi ammalavo e mi facevo i cicchetti di sciroppo solo per poter fumare. Ci odiavamo da morire quando fumavo solo perché stavo avendo una conversazione noiosissima e volevo distrarmi. Tutte le volte che volevo distrarmi, in generale. Dal lavare i piatti, stendere i panni, uscire di casa, tornare a casa, pulire casa, fare qualcosa, qualunque cosa, tutte le cose scandite da un adesso mi fumo una sigaretta e lo faccio. Un eterno ripetersi di ancora cinque minuti e poi mi alzo per andare a scuola.

Anni di ritardi, di accendini colorati, di sigarette fumate con persone di qualunque tipo che diventavano più amiche semplicemente perché ci stavi fumando insieme. Come è fatta una pausa adesso? Che cosa faccio, cosa devo guardare, cosa devo dire? Cosa faccio quando quello davanti a me al supermercato ha un spesa alta tre piani e sono incastrata lì a pensare a quanto mi rode il culo, cosa faccio quando finalmente esco se non mi fumo una sigaretta? Cammino e basta? Guardo le stelle, la gente, conto le macchine rosse? Entro dal tabaccaio e mi compro le Morositas e basta come alle elementari? Ma sopratutto, come lo scandisco il tempo se al tempo ho tolto le sigarette e mi rimane solamente il tempo?

Ero allo specchio, ho visto una ruga nuova, evidente, profonda, maleducata, all’ angolo della bocca. Ho pensato adesso mi compro una crema carissima, mi compro la Sisleya e vaffanculo, mi faccio tutti filler e arivaffanculo. Mi fumo una sigaretta mentre cerco i prezzi su Internet, me ne fumo un’altra quando li vedo. Posso compensare con la vitamina C, adesso scendo e mi compro le arance. I pompelmi, i limoni, me ne accendo ancora un’altra mentre cerco  dove altro sta la vitamina C. Mi metto a tossire, mi soffio il naso e mi vergogno da morire per gli ultimi venti minuti, per i quasi venti anni della mia vita in cui ho comprato un pacchetto di Camel celesti quasi tutti i giorni.

Non voglio essere la versione che vorrei essere di me stessa solo quando mi accendo una sigaretta e sogno. E non so fumare quando capita, non sono una tipa da grandi occasioni. Io sono un’esagerata, senza confini, senza moderazione. Senza più le sigarette in tasca. I soldi per fumare non li ho mai valutati, i rischi nemmeno. Chi fuma non valuta, fuma e basta. E se dovesse valutare allora si accende una sigaretta e poi lo dimentica. Chi fuma però perde una parte di attenzione che a qualcos’altro forse va pure data. I miei occhi dalla sigaretta con il tramonto al tramonto e basta. Dal dolore con la sigaretta al dolore e basta, alla felicità e basta. Basta. Vediamo com’è la vita e vediamo se mi basta.

Sono qui con una tisana alla liquirizia sul bracciolo della poltrona, adesso che chiudo tutto porto giù il cane, nel frattempo controllo se ai lampioni hanno rimesso le lampadine. Al ritorno prendo il volantino della Conad che ho visto stamattina nella posta, lo sfoglierò mentre cuociono le lenticchie. Chissà quanto costa il prosciutto crudo al chilo, chissà se c’è il tonno in offerta. E domani quando mi sveglio andrò fuori sul balcone a guardare i tetti delle case, tenendomi le mani sui fianchi come i signori di una certa età fanno in spiaggia guardando il mare.

Ho vinto del tempo e una dolce e feroce malinconia. Se vi rimane possibile, un consiglio, davvero, mai smettere di fumare.

 

 

Olimpia Parboni Arquati