Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Narcisista o coglionazzo?

Donne, amiche, sorelle, venite qui un attimo che devo dirvi un segreto. Sento già che mi odierete molto per quello che vi dirò ma è una cosa che mi tengo dentro da tanto tempo e comincio a sentire che dentro non mi ci entra più. Io, che certo ho un caratteraccio e certo non sopporto un sacco di cose, ho sviluppato un’idiosincrasia manco troppo sottile per tutte quelle cose che trovo scritte sugli uomini, questi narcisisti.

Nelle mie notti insonni leggo i libri, in quelle ancora più insonni capita che mi perda come un timoniere senza rotta, nel mare grosso dell’Internèt e lì dentro ci trovo un sacco di parole pesanti che però non hanno peso alcuno. Recito in disordine: “Come far innamorare un narcisista?”, “Come fuggire da un narcisista?”, “Il mio uomo è narcisista come devo fare?”, “Ma i narcisisti si possono innamorare?”, “Ma i narcisisti la fanno la spesa, ai narcisisti crescono le unghie, il piccante lo mangiano, almeno ai cani, i narcisisti, un po’ di bene glielo vogliono?”. Ecco io queste stronzate proprio non le digerisco. Anzi, queste cose mi fanno venire il sudorino freddo alla punta delle dita e mi fanno risuonare i neuroni come una pila di piatti che mi casca sull’anima e fa un sacco di rumore.

Perché? Beh in primis perché ovviamente tendo alla polemica come un fiume tende al mare ma anche perché queste informazioni sono diseducative e finiscono per costruire una realtà malata in cui milioni di povere donne sembrano costrette a subire le torture di un altro milione di uomini che, poverino, non ce la fa a trattarvi bene perché afflitto da un male incurabile. Come dire eh ma che ci vuoi fare, ha il diabete, mica lo possiamo curare. Mi maltratta ma non ho scampo, posso solo fare la vittima delle circostanze e crogiolarmi con le amiche durante gli aperitivi, gridando stronzo stronzo tutte in coro. Oppure posso passare ore a cercare lo psiqualcosa di turno che ti racconta cose a caso che però ti rincuorano perché ti sembra di ritrovare la tua storia tra le righe di qualche forum di disperate.

Non capitemi male, è stupendo quando ci sembra di trovare il significato delle cose, quindi anche il significato del male che ci facciamo fare ma commettiamo atto di presunzione nel momento in cui giustifichiamo il dolore con una diagnosi clinica. Il male non va capito, non va giustificato, va solo tenuto a quattro o cinque spanne dalle proprie chiappe. I disturbi di personalità, care donne, amiche, sorelle, sono una roba molto grossa e molto pesante. Quelli della mia tribù sono i primi a sbrodolare sentenze quindi non posso certo dire che sia tutta colpa vostra se vi viene da usare questi nomi così ingombranti con la leggerezza di una libellula mentre plana sulle acque.

I casi sono grosso modo due: può darsi che il vostro principe pallido sia effettivamente abitato da un grave problemone che risponde al nome di disturbo narcisistico della personalità. Se così fosse allora vorrebbe dire che non è che tratta male soltanto voi, ma che mantiene un modus vivendi rigido come un bastone con tutte le persone che conosce e in tutto quello che fa. Potrebbe anche avere altri problemoni, i disturbi di personalità sono più delle virtù teologali e comunque gli esperti ne “scoprono” di nuovi come quelli della Nasa scoprono nuove stelle. Quindi se prima ti vuole e poi scompare è uno schizoide, se si rintana in casa è un evitante e poi ancora e ancora. Ah certo, non dimentichiamo che ogni problemone ha diverse sfumature, quindi potrebbe essere un narcisetto covert oppure anche overt eh! Se non li avete mai sentiti nominare allora aprite subito Google e scoprirete che già il primo risultato si accompagnerà con qualche bel articoletto in cui qualcuno spiega sintomi, cause, conseguenze e come smascherarli. Oppure…

Oppure ci troviamo davanti a un’altra cosa. Non meno diffusa, non meno foriera di mali né meno insisdiosa: la coglioneria. Ebbene sì donne, amiche, sorelle, è possibile. La coglioneria, come qualsiasi altro problemone, possiede varie sfumature. Quindi ecco che nel nostro cammino potremmo imbatterci in coglionazzi semplici, coglionazzi agressivi, coglionazzi agressivi e maleducati, coglionazzi agressivi, maleducati e pure brutti. Non vi risponde più? Vi maltratta e pensa solo a se stesso? Vi scredita sempre e non vi fa mai sentire belle? Ha bisogno di essere ammirato ma rimane sordo ai vostri complimenti? Se avete risposto sì a qualcuna delle precedenti allora lasciatemi dire che qui le uniche matte in caso siamo noi. E no, non ci provate a buttare in mezzo la sindrome della crocerossina che vi obbliga a soffrire per la coglioneria di qualcun altro.

Nel momento in cui deleghiamo la responsabilità di ciò che accade a qualcosa che non possiamo controllare, ci mettiamo automaticamente nella condizione di vittima incatenata alle circostanze. Ci laviamo le mani dalle nostre scelte un po’ del cazzo, fatte molte volte più per orgoglio che per amore e di sicuro entriamo in un tunnel molto lungo e molto scuro in cui non esistono colpevoli ma solo condizioni attenuanti che ci fanno sentire meno stupide per non riuscire a dire basta.

Dichiarare il fallimento costa un sacco di fatica, lo so. Nessuno ci restituisce il tempo, le lacrime e le parole ma ognuno è responsabile della propria felicità più di quanto si è soliti pensare. Se il vostro uomo non vi ama non è colpa della malattia, non è nemmeno colpa sua, figuriamoci vostra. L’amore accade e non è mai veramente colpa di nessuno se smette di accadere. Non cercate nomi che possano sostituire il vostro dolore con una giustificazione, cercate solo il coraggio di appendere il cartello con su scritto bancarotta e cuore infranto perché è tutto quello che vi serve.

Certo, il cammino della donna timorata è tempestato da teste di cazzo però cerchiamo di chiamarle come sono, altrimenti quelle con il narcisetto scalpitante dentro finisce che siamo noi, ogni volta che facciamo di tutto per rimanere attaccate come zecche al coglionazzo di turno perché non ci vogliamo arrendere al fatto che ogni rifiuto ci lascia dentro una ferita. E allora prendiamoci cura di noi, affoghiamolo di parolacce se serve, ma non pensiamo che sia lui a doversi curare e noi la croce bianca. L’unica croce è quella che ogni giorno decidiamo di caricarci sulle spalle e dalla coglioneria spesso si guarisce meno bene che dalla psichiatria.

 

La posta di Olimpia – Il diritto di essere tristi

Cara Olimpia,

ho di nuovo voglia di scriverti, dopo aver riletto per la prima volta la lettera che ti avevo scritto qualche mese fa. Della tua risposta, e di tutte le cose che potrei ricordarmi, mi ricordo soprattutto un dettaglio: il tuo augurio di soffiare le candeline sul mio quarto di secolo volando, sopra le paure e sopra la tristezza. Ho atteso un po’ quel giorno portando le tue parole nel cuore, considerandole un buon auspicio, una forza, un aiuto sincero. Ora sono qui, sono passati pochi giorni dal mio compleanno e quelle candeline le ho virtualmente soffiate nella mia camera, da sola, piangendo allo specchio. Ha l’aria di essere una nuova lettera strappalacrime, e invece voglio dirti una cosa: io sono felice così. Sono felice della mia infelicità. Ho passato forse tutti i compleanni della mia vita facendo finta di essere felice, e invece questo no, questo volevo essere infelice con sfida, con sincerità, forse anche con noia, con disprezzo, di me stessa, di chi mi ha lasciato sola, con le mie autentiche sane e liberatorie lacrime. Non ho spiccato il volo in questi mesi, come tu mi avevi augurato, e come mi ero augurata, forse con poca sincerità, io stessa. Ma oggi mi va di coltivare il mio diritto di essere infelice. Mi va di dire al mondo: io soffro. Perché in fondo non c’è nulla di più umano della sofferenza, che tutti continuiamo a nascondere e scansare infilandola di soppiatto col piede sotto il tappeto mentre qualcuno entra, come si fa con quella pallottola di polvere che ti è sfuggita alla vista l’altro giorno mentre spazzavi. Vogliamo essere lindi, puliti. Vogliamo brillare. E invece io penso che non ci sia brillantezza che non passi dalle fatiche, dalle delusioni e dallo sfasciarsi, da qualche parte, addosso a qualche muro che tutti incontrano prima o poi. Cara Olimpia, io voglio essere sporca. Voglio scovare la polvere negli angoli e dietro le librerie, e voglio lasciarla crescere; voglio creare un polverone, ecco. Per così dire.

Adesso ho avuto voglia di rileggere la tua risposta invece. Non l’ho fatto prima perché forse stavo rispondendo alla me stessa di qualche mese fa, che nascondeva ancora troppa polvere sotto i tappeti. Mi è venuto ora in mente che nella mia casa di studentessa c’è tanta polvere, sai, c’è davvero tanta polvere. È una buffa coincidenza. Comunque la tua risposta mi ha fatto nuovamente sorridere molto. Hai ragione, dovrei riuscire a dire addio ai campi di cotone, eppure tutto sembra trattenermi quaggiù. Mi auguro di lasciar vivere le tue parole un po’ più forte dentro di me, mi auguro di lasciarmi aiutare. Non so ancora se riuscirò a spiccare il volo o se rimarrò un pulcino bagnato nel nido per sempre. Vorrei che nessuno si dimenticasse del pulcino che non ha imparato a volare.

S.

Carissima ma carissima S. questa volta io non mi sento di aggiungere quasi niente, perché il sentimento più bello che esista è quello che hai quando ti accorgi che sono gli altri ad avere ragione. Per cui in questi casi l’unica vera parola che conta è sempre una sola: Grazie.

E mio piccolo pulcino, ricorda una cosa che diceva un poeta: “A volte serve essere brutti. A cosa serve? A essere veri.”

E ricordane anche un’altra, tra tutti gli uccelli che esistono, ce n’è uno fantastico che però non sa volare perché non gli serve di farlo, e già stupendo abbastanza così com’è. I cigni non volano, i cigni ci mettono un po’ di tempo a capire che sono cigni e non sono soltanto anatroccoli un po’ neri. Continua a camminare che le ali ce le hai già dentro e la fantasia è un posto dove non solo piove, ma ogni tanto ci si vola anche dentro.

Olimpia

Intervento mezzo secchione sulla fine del Postmoderno

Non ho sempre avuto un buon rapporto con le cose che riguardano la cultura generale. Fino ad un certo punto scappavo dai libri come si scappa dallo sciroppo per la tosse, ero la tipica da 7 in condotta che se la passava spedita fuori dalla classe a conteggiare le mosche e ogni volta che si rischiava di entrare in argomenti vagamente impegnati, liquidavo la cosa con un accoratissimo “ammazzachepalle”Mia madre che cercava di spiegarmi i tempi verbali era ammazzachepalle, la biografia di Ungaretti era ammazzachepalle, le introduzioni a qualsiasi cosa, un ammazzachepallissime.

Poi verso i 15 anni, dopo aver preso un N.C. (non classificabile) ad una versione di latino, credo che mi vergognai talmente tanto di essere un sottozero che iniziai a smettere di prendere a capocciate i libri e cominciai a vedere che avevano da raccontare. Diciamo che ci tenevo tanto a fare la diversa fuori dalla mischia che avevo vinto il cappello da asino ed ero stata liberata dai vincoli dell’essere considerata un numero, ma spedita lì dove stanno quelli cacciati via dal gruppo, non quelli che se ne stanno fuori perché l’hanno deciso loro. E pure questo, devo ammettere, era una cosa che tutto sommato mi rompeva parecchio le palle.

Vi parlo della mia redenzione da un certo tipo di ignoranza perché, come per tante altre cose, non sopporto chi ti dice che studiare è importante perché sì e basta. Studiare non è importante, è semplicemente fighissimo. Ti darà sempre cose a cui pensare se ti ritrovi alla fermata dell’autobus senza lo smartphone, ti accompagnerà durante le ore di insonnia con riflessioni interessanti e mai inutili, in pratica ti permette un miglior monologo interno ma, sopratutto, ti faciliterà nella sottile arte del rimorchio durante gli aperitivi, le feste , le cene e quello che vi pare. Perché se stiamo ancora a pensare che per vincere servono soltanto i muscoli o soltanto le tette, allora rimane sicuro che continueremo a perdere.

Torniamo all’ispido argomento domenicale che mi è venuto in mente: Er Postmoderno. Anche se qualcuno di voi si starà dicendo si vabbè ma  che è er Postmoderno, se magna? Se magna, se magna. In qualche modo se magna e tra poco ci ritorno.

Questa strana bestiola la possiamo definire come una sfumatura di colore particolare che è andata di moda per un certo periodo. Un po’ come la moda del capello grigio o di quello rosa o di quello arcobaleno. Ecco, questa moda, come tutte le mode, nasce come risposta a quella che c’era prima, che in questo caso si chiamava Modernismo (ah però che fantasia sti acculturati), che a sua volta era nato dopo il Romanticismo (non quello delle rose rosse, mi raccomando). In pratica ogni trend nasce e cresce perché ci appalliamo di quello che c’era prima e proviamo a fare il contrario. Se questo è vero nella cultura, meno vero è nelle nostre biografie. Infatti lì, la maggioranza di noi rimane incastrata tutta la vita in un unico trend che ripetiamo fino all’ultimo respiro. Il perché magari una volta ce lo raccontiamo ma non oggi. Oggi fatemi fare la mezza secchiona della domenica invece della psicologa.

Er Postmoderno è quella cosa che ha fatto sì che, passati i momenti storici delle grandi dittature e della grandi guerre, potessimo finalmente esprimere le nostre volontà in tanti modi quanti riuscissimo a immaginare. Questa libertà si vedeva un po’ tutto intorno, prima di tutto nell’arte perché gli artisti so sensibili, si sa. Allora gli architetti, i pittori, gli scrittori, iniziano a fare le cose senza curarsi di rispettare nessun regola tranne quella di non averne nessuna e lo fanno con ironia. Si sperimenta tutto perché questo è il trend del momento e la moda vuole che si distruggano gli ordini costituiti e si giochi con la tavolozza dei colori a più non posso. A questa grande libertà di espressione corrispose, dopo un lungo periodo festoso, un grande senso di incertezza, esistenziale, politica, familiare, generale. Per tornare al nostro esempio dei capelli, se l’hanno scorso andavano tanto i capelli tutti colorati, quest’estate la storia continua ma è affiancata da un grande ritorno al colore neutro, 5O mila sfumature di castano naturale, magari con l’hashtag davanti. La prossima estate chiunque avrà una ciocca fucsia sarà ormai etichettato come “antico“.

Lo so che starete pensando che confondere i temi da parrucchiere con le grandi condizioni della cultura nel pensiero occidentale è una cosa da persona superficiale o forse un peccato grave, non lo so. Però so che se aveste anche voi un parrucchiere come il mio allora lo fareste. Ogni volta che vado a fare una “seduta” da lui, finiamo sempre per ripercorrere gli stili adottati dalla Bertè negli ultimi 20 anni e parallelamente toccare spunti esistenziali. Le cose mezze secchione si annidano nei luoghi comuni, non solo nelle aule delle università o nei convegni.

Eppure che Er Postmderno sia finito lo hanno deciso proprio con un convegno, 7 anni fa e quasi nessuno se n’era accorto. Ah, vi ricordo che alcune volte gli esseri umani hanno fatto convegni per decidere cose molte peggiori di queste, tipo a quale sesso appartenessero gli angeli, terribile dubbio che deve aver tolto il sonno a qualcuno, a un certo punto, tanti anni fa. Diciamo pure che nessuno se n’era accorto perché di certe cose, si parla in modo talmente tanto difficile da capire che nessuno se ne interessa. E, mannaggia a noi, la cultura è proprio una di quelle cose che si tratta con parole incomprensibili ai più e spesso è usata solo per darsi un tono in ipotetici salotti con altre persone che a loro volta si esprimono in modo astruso e forse nessuno ci capisce niente ma tutti si vergognano a dirlo, quindi si continua a parlare a monologhi invece che a dialoghi.

A me invece piace essere dialogica, o almeno provarci spesso, e mo’ vi dico da cosa si vede che Er Post è finito e sta iniziando una nuova era (sta iniziando pure quella dell’Acquario secondo gli astrologi acculturati ma non saprei esprimermi, in comune hanno il fatto che si manifestano lentamente). La libertà di ieri è diventata un leggero ammazzachepalle e pare come che abbiamo bisogno di nuove verità. Ieri la verità non la cercavamo più, oggi cominciamo a preferire il castano naturale. Ieri ci piaceva la Nouvelle Cuisine, oggi ci piacciono di nuovo le tagliatelle come la faceva nonna, i cibi a km 0, gli orti autoprodotti, il fatto in casa e il fatto semplice. E poi il vintage, il vintage e ancora il vintage. Ecco la parola che sta tornando: semplicità. O autenticità o genuinità o zero olio di palma, fate vobis.

I giovani si ricominciano a sposare e fare figlioli, i grafici lasciano il lavoro e vanno a vivere in campagna, le bellone di Instagram cominciano a farsi le foto senza filtro, senza trucco, senza troppo inganno. Si rispolverano le borse della nonna e si riprendono i libri in mano, alla faccia di chi dice che in mano abbiamo sempre e solo il telefono. Abbiamo ancora una volta bisogno di cercare “dio”, non più nel nulla (Nietzche, buonissima anima), ma in qualcosa. Ed ecco lì che spuntano i vegani estremisti, gli estremisti e basta, quelli che vanno in giro per il mondo scalzi, quelli che si danno allo sport come missione. Vale tutto basta che sia qualcosa che somigli ad un regola. (E basta non esagerare se no poi diventate ammazzachepalle).

Voi direte, ma quando mai? Hai presente il mare di Internet, la globalizzazione, il filtro bellezza? Olimpia ma di che cosa stai parlando?! Eh, lo so, lo so, avete ragione. Ma ho ragione pure io, lo sento in fondo al mio animo da mezza secchiona della domenica. E comunque ho detto che queste cose ci mettono un po’ a mostrarsi, molto più di quanto ci mettano le cose della passerella ad arrivare sulle stampelle di H&M.

Il Realismo, così l’hanno chiamato, si sta facendo sentire. Ci vuole meno armati e più buoni, meno ribelli e più comunicativi. Ci sta chiedendo di essere quello che siamo, qualsiasi cosa siamo, e di smetterla di fare finta di non voler essere niente e perdere la vita a chiederci dove stiamo andando. Se er Postmoderno è l’Opera House di Sidney, quella tutta curve metalliche che pare un veliero, il Realismo è una casetta come quelle casette che disegnano i bambini sui quaderni.

Adesso la mezza secchiona della domenica vi saluta, augurandovi di trovare il vostro modo di cavalcare il trend del momento senza troppa paura e con il desiderio di cercare voi stessi e il vostro vero colore.

L’insopportabile violenza nei social network

Augurare la morte a una persona è sempre una brutta cosa, ma augurarla a qualcuno che non abbiamo mai visto in faccia è una di quelle cose, e sono veramente poche, che scriverei sulla lavagna sotto la voce “voi siete tutti quanti pazzi”.

Sì perché la violenza non è una grande novità, è solo l’altra faccia dell’amore. O ti accetto perché siamo d’accordo, oppure ti devo distruggere fino a che non mi diventi polvere tra le mani. Ce l’avevano i greci, ce l’avevano i romani e ce l’aveva tutta quella gente che troviamo sui libri di storia di ieri, di oggi e di dopodomani. Una di quelle robe alla mors tua vita mea, homo homini lupus, o li mortacci tua e basta. Insomma signori, su questo tema ci si scrivono i trattati, non pretendo di fare un ottimo riassunto sull’utilità dell’odio, mi voglio limitare a ricordarci che la funzione del capro espiatorio è una cosa importante perché permette alle persone di unirsi per un obiettivo comune, fornisce una continua fonte di dialogo e ci fa sentire migliori perché sotto sotto ci piace coprire le nostre travi, sottolineando le pagliuzze negli occhi di tutti gli altri.

Però se pensate che io stia qui a portare parole di pace allora vi sbagliate. Non sono il tipo. Ho sempre pensato che la pace sia più difficile delle bombe, i cazzotti più facili degli abbracci e i rimproveri dei complimenti. Non sopporto Imagine di John Lennon eppure una volta, a Firenze, ho ballato con un Hare Krishna in mezzo alla strada, ma solo per allentare i limiti della mia timidezza. Spesso divento un drago sputafiamme e sento crescere in me lo spirito di Charles Bronson, assumendo le vesti da giustiziere della notte ma col dialetto di una della Garbatella.

Vi confesso anche due episodi di gioventù (più gioventù di adesso) che a ripensarci mi lasciano ancora attonita, ma servono solo per rassicurarvi del fatto che non sto qui a sventolare bandiere bianche e dire che offendere gli altri è brutto e cattivo quindi non si fa. Il primo episodio mi è successo in un bagno della stazione di Parigi in cui bisognava versare un contributo di 2 euro per poter entrare. Lo verso in una soluzione unica con monetona singola ma il tornello non gira, allora chiedo all’inserviente cosa potesse essere successo. Sbuffando mi dice che se non metto i soldi non funziona, io dico che li ho messi, lui dice di no, io insisto, lui pure, io peggio, lui mi dice italiana bugiarda di merda come tua madre e tua nonna e come tutti gli altri, mi volta le spalle e se ne va. A quel punto interviene un signore che lo comincia a insultare perché il tipo è scuro di pelle, una ragazza che invece se la prende col signore perché è razzista, io non ci capisco niente ma sopratutto vorrei andare in bagno. Mentre tutti urlano con tutti, scavalco il tornello, infilo le mani nel portafoglio, raccolgo tutte le monete in un solo pugno e con la peggiore faccia da Charles Bronson, tiro tutto il malloppo contro il muro del bagno ed entro come un cowboy dicendo in mente una frase tipo “tieniti pure il resto“. Ah, che personcina terribile quella volta. E anche quell’altra volta che mi trovavo al mare e il barista mi disse che ero una grande rincoglionita perché non avevo preso in cassa, oltre allo scontrino, pure i gettoni per le cose da bere. Gettoni che non mi avevano mica dato e glielo dico. Ma anche stavolta lui non ci crede e mi dice di togliermi di mezzo che stavo intasando la fila. Io, che vi ho detto sono sempre Charles, insisto sulla mia posizione, lui insiste sulla sua e la cosa prende una brutta piega perché oltre che della rincoglionita mi regala insulti peggiori che non ripeto nemmeno io che sono grande fanatica delle parolacce. A quel punto mi si annebbia la vista e scavalco il bancone, afferrandolo per la camicia e dicendogli che la prossima volta tutte quelle cose poteva pure dirle a sua sorella (o zia, non lo so, comunque la mamma no). Come vedete, quando mi incazzo non mi risparmio e scavalcherei di tutto se qualcuno mi offende oltre certi limiti.

Ebbene sono stata una testa calda e ogni tanto anche un po’ una testa di cazzo e basta. E che vuol dire allora, che ho smesso di saltare ostacoli e di rispondere agli insulti? Sì, ho smesso. E non l’ho fatto perché è una cosa brutta e cattiva, ma perché quando mi incazzo forte per delle ragioni stupide, poi rimango incazzata per tutto il giorno e certe volte anche per quello dopo. Mentre se ai vaffanculo rispondo salutando con la mano come la regna Elisabetta, ho scoperto che mi viene così da ridere che mi passa subito e mi rende libera dalla bile che poi mi intasa lo stomaco e mi fa venire le rughe. Certe volte bisogna smettere certi comportamenti perché costano troppa fatica e basta, senza cercare di darsi un giudizio o le frustate sulla schiena per aver sbagliato.

E allora belli miei, ma che cosa ci succede su questi social? Come ci viene in mente di insultare madri, figli e intere generazioni? Come ci viene in mente di sentirci tanto progressisti e mettere invece tutti alla gogna come si faceva nel Medioevo, tirando la frutta in faccia a qualcuno solo perché qualcun altro l’ha tirato in mezzo alla piazza? Lo sapete che oltre alla frutta, quelli alla gogna si prendevano pure delle palate di sterco sugli occhi e in bocca? Ecco, noi facciamo la stesso cosa. Esattamente la stessa cosa.

Ogni volta che spargiamo odio sopra le idee di qualcun altro diventiamo proprio come i terroristi che tanto odiamo, ciechi e sordi per ideali che forse nemmeno esistono. Spietati come grande inquisitori, imitando goffamente il povero Cicerone e tutti gli oratori che si dilettavano a distruggere il prossimo con le parole, ma almeno lo facevano con stile. Non siamo i principi del foro, non siamo dei grandi retori, non siamo mica Torquemada, quindi quando ci viene voglia di fare a pezzi qualcun altro, andiamoci a fare una bella corsa oppure puliamo le mattonelle in bagno o facciamo un bell’urlo dentro all’armadio invece che agli sconosciuti.

Se poi vi capita di dover tirare fuori il vostro personale Charles dalla vostra anima, allora fatelo. Ogni tanto è pure giusto fare i primitivi e ricordarci che siamo pur sempre figli degli scimmioni, ma fatelo quando è proprio giusto e non c’è nient’altro che si possa fare. In tutti gli altri casi ma lasciatela correre questa vita, lanciare merda sugli altri non vi farà sentire sul piedistallo dei giusti, ma su quello dei rancorosi che non hanno nient’altro di meglio da fare che dire agli altri che cosa è meglio. O se siete personcine dal prurito alle mani facili, che una parola devono lasciarla sempre e zitti non ci sanno stare, allora prendetevi del tempo prima di insultare. Leggetevi le Catilinarie del vecchio Cicero, leggetevi L’arte di insultare di quel bel depre intellettuale di Schopenhauer. 

Se volete la gloria del vincitore, se volete che tutti vi riempiano di pollici all’insù per come mettete insieme le vostre pallottole, allora fatelo pure cazzo, però fatelo per bene. Fatelo con grazia e con pazienza, perché anche l’antipatica ha la sua eleganza e fare i tamarelli di borgata siamo bravi tutti, compreso il mio Charles interno quando viene a trovarmi.

L’odio paga pochissimo e raramente, proprio come fa l’amore. Anzi, pensateci un attimo, regalereste mai tutto il vostro amore a qualcuno che non avete mai visto? Ma no che non lo fareste, allora perché dovreste regalare tutto il vostro odio così alla cieca? Sono entrambe energie preziose ed entrambe vanno meritate. E poi, come si dice qua alla Garbatella, se te devo mandà affanculo, bisogna che te guardo nell’occhi mentre lo faccio.

 

Combattere il male di vivere in poche mosse e senza uscire di casa.

Spesso il male di vivere ho incontrateccetera eccetera eccetera. Lo so, io lo so che anche tu sei un po’ come me e anche tu tendi a svegliarti con quella sensazione di amaro nel cuore almeno una volta ogni settimana. Non sai come si chiama, non c’è sempre un motivo ma che ti capiti di aprire gli occhi con quella morsetta tutta stretta intorno al petto, rimane una verità incontrovertibile. Ora qui potremmo pure chiamare in causa l’universo intero cercando di motivare l’origine di tale malessere, ma finiremmo per perderci in una galassia di significati che ci allontanerebbero da quello che voglio dirti.  L’esistenzialismo, il capitalismo, il buddismo, il menefreghismo, il qualunquismo, il femminismo, il veganismo, tutti. Sono tutti colpevoli del fatto che qualunque cosa succeda, qualunque cosa ci passi tra le mani, non troviamo comunque il modo di starcene zitti e contenti a godercela, senza doverci dare ogni tanto una bella ripassata nel male di vivere come le cotolette nel pangrattato.

Quindi se te sei un po’ come me le cose sono due: o decidi che una spiegazione la devi trovare e allora ti imbarchi in questa crociata tempestosa e non ti arrendi fino a che non hai trovato un nome abbastanza adatto. Scorri le possibilità e vedi cosa ti convince meglio, se fermarti nel girone dei depressi, dei bipolari, degli ignavi, degli incompresi, degli eremiti, del dopolavoro ferroviario o del circolo bocce, le possibilità sono infinite, l’importante e che ti ci senta a casa. Oppure fai come me e questa crociata non la combatti, ma la accogli con un abbraccio come si fa con un vecchio amico.

Non lo so se questa è una cosa giusta oppure sbagliata, però ti giuro che a lungo andare, risparmi un sacco di tempo utile. Quel tempo che prima investivi a cercare il bandolo della saudade, lo puoi passare a fare altre cose, perché tanto lo sai che poi domani passa, giusto? Quindi, come dice il mio astrologo di fiducia, se l’apocalisse è adesso, tanto vale ballare o come ha detto qualcuno ma non so chi, visto che stai nel tunnel, a questo punto arredalo.

Negli anni mi sono affinata parecchio, giorno di saudade dopo saudade, a trovare dei modi semplici che mi fanno arrivare alla fine della mia giornata di merda, un po’ meno avvilita, un po’ meno malinconica e con un po’ meno voglia di rispondere che va di merda se qualcuno dovesse chiedermi come sto. Adesso ti faccio una breve lista che tante volte hai visto mai ti possa aiutare pure a te. Insomma, la verità è che ci raccontano che per stare bene dobbiamo sempre fare chissà che, scalare montagne, perdonare torti, abbandonare rancori, invece secondo me ogni tanto dobbiamo solo rimboccarci le maniche e cercare di prendere il mal de vivre come un momento in cui la vita ti ricorda che per poterla vivere, la cosa che ti devi allenare a fare, è a diventare molto creativo. 

Le giornate di merda sono come un frigorifero quasi vuoto, ti costringono a dare qualcosa anche quando da dare ti è rimasto soltanto il peggio e una coccia di parmigiano.

E quando mi tocca quella minestra, io di solito me la cucino sempre così:

  • Risveglio muscolare con i Wu Tang Clan. Ebbene sì, niente grandi classici della canzone italiana, niente romanticherie smielate ma soltanto loro a tutto volume. Tu mi chiederai perché ma la verità è che non lo so perché ma con questa colonna sonora non puoi mai essere veramente triste. Fanno troppo casino, fanno troppo ritmo e ti fanno sentire lontano da tutto il resto e vicino a un realtà che sta soltanto nei telefilm. Quindi se ti svegli male prova a farlo anche tu, prima del caffè, prima di tutto. Scommetto una stecca di sigarette che dopo cinque minuti corri a prendere gli occhiali da sole e te ne vai in bagno alzando le mani in aria.
  • 3 caffè e 7 sigarette dopo sono pronta per affrontare il resto del mio disagio e quindi decido che, per darmi un bello spintone che mi fa reggere fino al pomeriggio, anche solo contemplando le foglie muoversi fuori dalla finestra, il meglio che posso fare è mettere le mani in quello che più odio tra tutte le cose di questo mondo: la burocrazia. Ed ecco che, soffrendo come se stessi facendo 100 flessioni, comincio ad aprire cassetti, sistemare due o tre bollette, aprire la posta e scrivere una di quelle risposte che rimandi da mesi e mesi. Se riesci a fare soltanto una di queste cose, ti prometto che anche solo per un momento, proverai un sollievo così tanto grande che ti verrà quasi voglia di comprare un raccoglitore colorato pieno di cartelline e farlo diventare un esercizio zen.
  • Superato il pranzo comincio l’ispezione delle geometrie di casa, ripasso gli angoli e individuo punti che non mi piacciono. Prendo il metro in mano e misuro i mobili, fino a che nella testa non sento un click e allora parto con il tetris. Ti giuro che non so da dove tiro fuori così tanta forza da riuscire a spostare gli armadi a muro, ma devo dire che ci riesco. Ho l’abbonamento dall’osteopata ma ci riesco. Questo qui posso dirti che si tratta di un vecchio vizio, anche a 6 anni, quando non dormivo, mi alzavo di notte e spostavo il letto. Per molti anni ho pensato di avere qualche problema (grazie al cielo ne ho ancora e me li tengo stretti) ma poi ho scoperto che questa cosa si chiama Feng Shui, chiedi a Google se non mi credi. L’idea è che in qualche modo muovi le energie, non so quali e non so perché, ma siccome la casa è una cosa così importante che metà dei nostri sogni ce l’hanno sempre come protagonista, evidentemente se sposti il comodino a destra invece che a sinistra, è un po’ come prendere a gomitate la tua saudade e farle capire meglio chi comanda.
  • A questo punto della giornata, senza avere mai spento la musica, mi ritrovo davanti un paesaggio un po’ cambiato, anche solo un angolino piccolo piccolo che però adesso è diverso. La musica continua a suonare alta e ormai ho messo al collo tutto l’oro che ho trovato in casa. Il tramonto è vicino e allora, siccome non ho niente per cui brindare, brindo al niente come se niente fosse. Ma lo faccio al tramonto, come un rituale. Mi siedo sul primo gradino del mio giardino e aspetto che il sole cambi colore, per ricordarmi che, se anche domani non è un altro giorno ma soltanto un altro uguale uguale a questo, io comunque non sarò mai senza risorse. Avrò sempre con me le mie orecchie, la mie braccia e i miei occhi, occhiali da sole compresi, per vedere meglio come anche il giorno peggiore non è mai il peggiore se solo provi a volergli bene invece che a litigarci.

Ah sì, poi c’è un’altra cosa che faccio quando la vita mi fa un po’ maluccio, mi siedo qua davanti e scrivo. E provo a trasformare un niente in qualcosa che abbia un po’ di senso, il grande caos in un piccolo logos, il male di vivere in una lotta attiva contro le tenebre, a colpi di basso e a colpi di martello.

Allora facciamo così, mio caro e malinconico amico, tu accendi le casse e io vado a prendere le birre e le metto in fresco. Oggi basta combattere, oggi siamo stati bravissimi e ci siamo arresi ma col sorriso.

 

 

La posta di Olimpia – A che cosa servono le batoste

Ciao Olimpia, mi sono sempre ripromessa di scriverti perché credo che se si pensa qualcosa di qualcuno, glielo si deve dire senza troppi indugi. Allora volevo dirti che adoro come scrivi e gli argomenti che tratti. La tua capacità di osservazione dei minimi particolari mi stupisce sempre di più e sono contenta che qualcuno abbia ancora la capacità di osservare, anche nelle situazioni più scomode, come può essere un tram o la metro a Roma.

Detto ciò volevo chiederti cosa ne pensi delle “batoste”. Come può essere, ad esempio, la fine di una relazione, essere bocciati a un esame…quelle che proprio non ci si riesce a rialzare più, quelle che ti mettono davanti a un muro di insicurezze e di autosvalutazioni che è difficile superare.

Continua a scrivere se ti fa piacere e soprattutto se ti fa star bene, perché a me leggere quello che hai da dire fa star bene perché è detto con passione.

A.

Cara A.

Mi hai fatto una bella domanda e anche se su tante cose sono impreparata, su questa forse lo sono un pochino di meno. Io delle batoste penso un sacco ma un sacco di cose. Le fregature, le sconfitte, le delusioni, le tristezze, le pizze in faccia quando meno te lo aspetti insomma, sono quanto di più utile, creativo e benedetto ci possa mai capitare in questa vita spesso di merda, quasi sempre difficile.

Un mio maestro diceva spesso che la vita non è quello che ci capita ma quello che ne facciamo di quello che ci capita e raramente mi sono trovata più d’accordo su certi punti di vista come in questo caso. Poi c’è chi crede che tutto capiti per un motivo e che tutto quanto abbia un significato profondo, io no. C’è chi crede ai grandi complotti che qualcuno ordisce alle nostre spalle e cerca di farci degli sgambetti per metterci alla prova come fossimo tutti piccoli Giobbe in divenire, messi su questa palla verde e blu per sopportare pesi ed angherie, io no. Io credo che la maggior parte delle cose ci capitino per un caso talmente tanto casuale che chissenefrega di trovargli un senso, ma ogni volta che qualcosa ci capita, porta con sé il potere della reazione.

Essere maltrattati o lasciati o traditi è uno scempio per le nostre anime, è un’esplosione di singhiozzi e domande, è una secchiata d’acqua fredda fatta a forma di coltello, ok. Ma dimmi un po’ tu se non conosci almeno qualcuno che dopo essere stato accoltellato in questo modo, non abbia anche tirato fuori cose di sé stesso che non conosceva. Banalmente iscritto in palestra, tagliato i capelli, fatto nuove amicizie, fatto viaggi ricostruttivi, sia metaforici che reali. Sono sicura che questo sia capitato anche a te come a buona parte dei tuoi amici.

Gli scrittori non scrivono mai quando sono felici (questo non è del tutto vero), lo fanno quando sentono che c’è un vuoto e che solo le parole possono fare da balsamo sui nodi del dolore. Lo fanno per eccesso di sensazioni e per carenza di spiegazioni e sensi. I migliori sportivi hanno subito qualche incidente che li ha fatti fermare per un momento. E in quel momento si sono dovuti fare delle domande e se le sono dovute fare per forza. Insomma, non è forse solo rialzandoci dopo essere caduti che si vede quanto siamo veramente alti? Non è forse gradevole vedere le ferite che si rimarginano e ci aiutano a non dare per scontato il male? Non è forse meraviglioso sentire che ce la possiamo fare quando invece pensavamo di essere al tappeto?

Forse, ma forse forse eh, il dolore e il male sono stati messi su questo pazzo mondo solo per farci avere l’idea del bene e della felicità. Come il nero serve a definire il bianco e la pioggia il sole.

Quando avrò dei figli farò loro solo un augurio, che possano soffrire nel loro cammino, non sempre ma nemmeno mai. Così potranno chiedersi di loro se stessi, di quanto valgono e di cosa vogliono. E così potranno cambiare tantissime volte e sentire che la vita si allunga, perché non è una linea ma una spirale piena di curve.

Al povero Einstein dicevano sempre a scuola che era una pippa in matematica e con lui ti farei un listone lungo ma poi diventerei prolissa, che è il mio miglior e peggior difetto. Però facciamolo questo 2 + 2. Pensa se non glielo avessero mai detto?

O comunque pensa un secondo a me, tutte le cose che lascio scritte qui vengono da qualcosa che mi ha fatto male o che ha fatto male a qualcun altro. Quando ho iniziato a scrivere l’ho fatto perché mi avevano detto che mi sarei dovuta rassegnare allo stato delle cose, abbassa la testa e fai solo quello che si deve fare, perché da soli non si può fare niente. Abbassa la testa e segui la corrente, che se no poi ti perdi nell’oceano e non arriverai mai da nessuna parte. Ok, non sono e forse non sarò mai un caso che finirà in un libro o nelle citazioni spicciole dei social network, ma non importa. Sto solo facendo qualcosa che non pensavo di poter mai fare, e questo mi basta per dirti col cuore in mano, che le batoste sono squarci di possibilità che scoppiano nel cielo come dei fulmini. Sono l’occasione per cambiare un destino che magari non volevamo nemmeno, sono momenti per tirare fuori le palle e mettere le mani sul timone della nostra barchetta e navigare il mare.

La cosa difficile è non affezionarsi al rancore maledetto che le batoste ci lasciano addosso, perché anche quello tiene compagnia e rischiamo di rimanere legati alle cose che ci sono capitate come se ci avessero anche tagliato braccia, gambe e cervello. Solo se ci permettiamo di lasciare che le cose crollino avremo veramente spazio per vedere germogliare dei fiori nuovi. E allora che le nostre lacrime di tristezza siano come pioggia per tutti questi semi che ci portiamo dentro.

Ti abbraccio,

Olimpia

La posta di Olimpia-Leone in gabbia

Carissima, come avevo promesso eccomi qui felice di potermi confrontare con te.

Visto che si tratta di posta del cuore tagliamo subito la testa al toro, vivo una condizione demmerda.  Sposata da 14 anni, anni nei quali ho sempre annullato me stessa per ricoprire ruoli “moglie” e”madre” riuscendo a creare comfort per tutti tranne che per me. Bé, sono esplosa peggio dei fuochi d’artificio di capodanno e da circa 3 anni vivo consapevole di chi sono e chi voglio diventare ma imprigionata in questa situazione visto che il consorte non vuole saperne di divorzio. Dirai: “Già parli di divorzio”? Bé, quando ti accorgi che ti sei sempre accontentata e che pensavi il tuo amore bastasse per entrambi (errore di massa che le donne fanno) sti cazzi che vuoi ancora questo! Poi finito l’amore e non essendoci altre basi solide…diventa estenuante. Separati in casa (na gran bella puttanata) e visto che ho sempre messo stop alla mia vita per prendermi cura degli altri, oggi caco la panella di non avere una mia indipendenza economica per poter andare per la mia strada e in più periodicamente mi sento dire :“Cambia che saremo felici” ma che cazzo devo cambiare, un programma in TV? Perché secondo te il maschio non se ne fa una ragione come riesce a fare la donna quando questa è sicura di sé stessa? 

Grazie mille per la creazione di questa rubrica. Bacio mitica!

V.

 

Cara V.

Ma che cazzo stai a fa’? Ops, scusami, ma mi è proprio scappato. L’avrai capito che ho questo piccolo grillo parlante super coatto che ogni tanto, anche lui, esplode dentro di me, come un minicicciolo e non sempre lo riesco a fermare.

Fammi ricapitolare: non mi piace fare conti sulle età delle signore ma a occhio e croce hai annullato te stessa per poco meno di metà della tua vita e qualche primavera fa hai avuto la sensazione che quel piccolo bollitore che è la nostra anima, fosse arrivato al capolinea del capolinea del capolinea. Diciamo che più che esplosa, sei implosa, continuando a fare quello che hai imparato a fare bene, ovvero buttare giù sensazioni che non ti piacciono per trasformarle in comfort domestico, coniugale e figliale.

Io quando sento queste storie di sacrificio provo due sentimenti contrastanti: una voglia matta e disperatissima di venire lì e ripeterti a voce la frasi in incipit della mia risposta, ricordandoti che se quel signore capellone di cui si parla spesso, quello che alcuni credono si sia sacrificato per l’umanità, non ha poi ricevuto tutto sto rispetto (sono agnostica ma il significato storico rimane), non vedo perché il sacrificio di chiunque di noi possa mai essere funzionale a qualcuno o qualcosa, (tranne che ai nostri principi di ulcera e mali psicosomatici sparsi, si intende). L’altro sentimento è quello di venire sempre lì e trascinarti con la forza prima dal parrucchiere a fare un taglio matto, poi in un posto qualunque in cui si balli fino al mattino e farti fare duecento brindisi fino a che non ti dimentichi chi sei e ti ricordi chi volevi essere.

 

Coltivo varie fisse (mio padre colleziona monete e francobolli, forse è colpa sua, gliene parlerò), tra queste mi intrippo spesso a guardare le etimologie delle parole. Forse l’eredità familiare, forse perché sono andata al liceo classico e anche se all’inizio ero una zappa, poi mi sono affezionata e diventata bravina a volere bene alle parole, ma che ne so. Insomma “Divorzio”, recita the dictionary: “Differisce da Ripudio poiché questo può avvenire anche per scambievole incompatibilità, mentre il secondo avviene SEMPRE per volontà di una delle parti.” Ehm…come “Già parli di divorzio”? piuttosto “Ancora non abbiamo firmato le carte?”

 

Non mi fraintendere, sei stata una mamma coraggiosissima a resistere tutto questo tempo e sono sicura che sei anche una mamma affettuosa e attenta. E fino a che si parla di amore per i figli, come potrei mai darti torto? Hai tenuto botta, brava. Hai trasmesso un buon modello, brava. Puoi trasmetterne uno ancora migliore, non credi?

Quello della mamma che si rompe le scatole, se le fracassa fino a farle diventare coriandolini e a quel punto raccoglie la sua dignità e i suoi bagagli e ricomincia da un’altra parte.

Le chiavi della tua felicità ce l’hai appese al collo e puoi decidere di usarle quando vuoi, ma attenta a non ritrovarti nel troppo tardi finché sei ancora in tempo.

 

Il tuo per ora marito ha detto una cosa giusta: “Cambia e saremo felici”, sono d’accordo, sai. Scusa eh, lo sai che parteggio per te perché è con te che sto parlando, però ha ragione comunque. Tu cambia e tutto cambia. Tu cambia e questa gabbia si aprirà. Tu cambia e anche gli altri cambieranno. Hai presente Raffaeollona Carrà quando dice “Se per caso cadesse il mondo io mi sposto un po’ più in là”? Ecco mio bel cuore vagabondo che di regole ne ha ma potrebbe cambiarle, che dici di farlo traslocare questo cuore?

 

Te lo ricordi quel bellissimo film che si chiama La guerra dei Roses? Ci sono marito e moglie, separati in casa, che si fanno tanti di quei dispetti l’un l’altro che effettivamente non capisci mai se devi ridere o devi piangere. Per esempio a un certo punto lui sega a lei tutti i tacchi di tutte le scarpe del suo immenso armadio, lei gli prepara per cena il gatto al posto del solito pollo al forno. Spietato, esagerato, ma molto, molto intelligente. Ti consiglio di vederlo o rivederlo, mio caro cuore di leone in gabbia.

Insomma, leoncino, le ragioni non si fanno, si fanno vedere, si mostrano, si mettono sul tavolo, si sbattono in faccia ma sopratutto si hanno. E se le hai allora devono bastarti come e forse anche più dell’amore, perché in questo caso sì che basta essere da soli a portare il peso, è l’unico modo per continuare a camminare. La ragione non è uno zaino pesante ma un momento di coscienza e consapevolezza in cui possiamo sentirci soli e abbandonati, ma non lo siamo perché restiamo abbracciati alla nostra libertà. Solo che anche quella non può essere un pensiero né un’idea, ma un gesto pratico, in cui tu apri la porta e navighi a vista verso tutto il resto del mondo che ti aspetta.

Diventa il tuo mito personale e fa’ che i tuoi figli imparino anche questo, il coraggio non si vede sempre nel puntare i piedi ma nel correre via dalle morse come si corre via dagli incendi.

Nessuno merita quattro mura senza amore, vai e costruisci la tua casa nuova, la forza non ti manca, la pazienza non ti manca, le mani non ti mancano. Chiudi gli occhi e corri prima che manchi l’unica cosa che potrebbe un giorno mancarti: il tempo.

 

Ti abbraccio,

Olimpia

Riflessione non definitiva sul perché ci piacciono gli stronzi

Questo mese senza scrivere una parola mi ha fatto ricordare perché avevo iniziato a farlo. Perché mi fa stare bene cazzo, mi fa stare molto bene. E cosa è successo allora? Dove sono finite tutte le mie buone intenzioni? Dove sono finite tutte le lettere che mi avete scritto? Io spero tanto che nessuno sia sentito preso in giro quando non ha più ricevuto risposta, non era così e adesso vi racconto quel po’ di verità che so.

Tutte le storie che mi avete raccontato avevano in comune sempre la stessa cosa: l’amore. Anzi, il malamore. Più di 50 persone (spiegarvi l’onore di quest’attenzione è un capitolo a parte) mi hanno raccontato il loro dolore e io che ho fatto? Quasi niente miei cari, quasi niente. Anzi una cosa l’ho fatta: ho avuto paura. Di non sapere che cosa dire, di non essere più saggia di niente né più intelligente di nessuno e quindi sono un po’ scappata, come succede nelle migliori storie quando il carico si fa grosso.

Però aspettate, non sono scappata per non tornare, mi sono presa la maledetta pausa di riflessione. Che di solito è una banale scusa, in questo caso però no.

“Olimpia odio mio marito che mi tratta male, come posso fare? Olimpia il mio ragazzo è un pezzo di merda, come posso fare? Olimpia sono innamorato di una che è sposata, come posso fare? Olimpia il mio compagno non mi fa nemmeno usare internet, come posso fare per chiederti come posso fare?”

Olimpia a questo punto ha avuto un crollo sentimentale. I primi giorni camminava per strada e aveva voglia di fermare chiunque e chiedere “Signore per favore mi aiuti, ma perché ci piacciono sempre le persone che non ci trattano sempre bene?” Poi Olimpia l’ha chiesta pure a mamma e papà questa cosa, ai suoi amici, alle persone conosciute per caso il sabato sera, agli occhi del mio cane e al kebabbaro qui di fronte. L’ha chiesto a tutti, l’ha chiesto alle stelle, ai libri e all’albero di prugne che fiorisce nel giardino. A tutti tranne che a se stessa.

Forse ci passerò la vita con questo punto interrogativo nel cuore ma non voglio che passi un altro giorno ancora senza raccontare a qualcun altro quelle quattro stronzate che penso sull’argomento. Così magari la testa smette di farmi male e così magari anche un centimetro dei vostri cuori comincia a fare un pochino meno male.

Allora, cominciamo col dire che non è per niente vero ci piacciono gli stronzi, ma quando mai? Lo sapete chi ci piace, eh? Mo’ ve lo dico. Ci piace chi ci racconta quanto siamo belli, quanto siamo giusti, quanto siamo interi e non a pezzi. Ci piace chi ci tratta benissimo, ci vomita farfalle in faccia, ci dipinge arcobaleni addosso e poi…e poi smette. Ecco che succede. Se qualcuno, ad un certo punto, ci ha detto delle parole d’amore allora è fottuto per sempre. perché il cuore non dimentica manco una virgola. E non perdona.

Se tu, Pinco Pallo dei miei stivali, a un certo punto hai tirato fuori complimenti per me, allora me li devi ripetere fino alla tomba. L’idea di me bellissima è una cosa che non ti puoi più riprendere. Siamo condannati a cercare noi stessi negli altri e quindi siamo condannati a prendere a testate chi osa cambiare idea ad un certo punto.

Signori, coraggio, non è la stronzaggine che lega, è l’ambivalenza. Le cose non vanno avanti perché lui o lei scompaiono nel nulla, ma perché ogni tanto tornano. Non è un mondo di stronzi, è solo un mondo di persone che cambiano idea continuamente. E poi magari la ricambiano e poi ancora e ancora.

Quante ne abbiamo sentite, quante ne abbiamo vissute? Coraggio, voglio saperlo. Provate a contare i vostri episodi ma pure quelli degli altri in cui ci sono frasi che somigliano a : “Ma mi aveva detto, mi aveva promesso, mi aveva scritto.” AVEVA, infatti. Un imperfetto, solo un imperfetto che nel presente non c’è più o non è più come prima. E allora noi che facciamo? Come koala assatanati, tiriamo fuori gli unghioni e ci attacchiamo alle parole, le ispezioniamo, ne tocchiamo il fondo, ne facciamo la radiografia e in alcuni casi arriviamo a farne l’autopsia. Passiamo in rassegna ogni maledetta lettera di ciò che è stato e non andiamo avanti.

Vero amore sempre? Ma dai. E non mi venite a dire “Eh ma tu non puoi capire…” perché le storie si somigliano tutte, anche tu che mi stai leggendo adesso sei nel pentolone quindi non provare a fare l’originale. Finché cercheremo tutti noi stessi negli occhi degli altri, crolleremo ogni volta che qualcuno smette di guardarci come noi vorremmo.

Se potessi avere un genio  con una lampada gli chiederei se per favore trova il modo di farci scappare dagli “stronzi” così come si scappa dal fuoco quando ci metti la mano sopra. Puro spirito di sopravvivenza e conservazione. Invece niente, tutti koala co’ le stronzate degli altri. Ma noi invece? Non abbiamo mai cambiato idea su qualcuno? E allora pensiamoci un momento e pensiamoci anche mille momenti prima di risponderci. Quando lo abbiamo fatto o quando ci siamo comportati in maniera sfuggente, lo abbiamo fatto con la chiara intenzione di ferire gli altri o piuttosto perché in quel momento quello era il massimo di quello che potessimo fare? Non stiamo forse tutti quanti qui ad agire più a favore nostro che a sfavore degli altri? Ma tutti questi stronzi, avranno mai un infallibile piano malefico per rovinarci la vita o forse cercano solo di rendere migliore la loro come facciamo anche noi? E non siamo anche noi gli stronzi dei nostri racconti?

Io non la voglio più sentire questa storia degli stronzi perché mi ha fatto diventare il cuore un sasso duro, gli occhi due laghi di montagna e la voce un sibilo di rabbia.

Vi lascio dei punti alla Marzullo che mi ritornano sempre in mente:

-Prima di pensare che gli altri cambieranno per noi, rendiamoci conto di quanto poco cambiamo noi per noi stessi

-Hai incontrato qualcuno che ti tratta peggio di quanto dovrebbe? Vogliamo passare la vita a cercare di spiegare il galateo dell’amore ?

-Il tuo “stronzo” di fiducia usa la stessa dolcezza che trovi mangiando un limone a morsi e tu non sai che fare. Sputare via tutto e tornare al mercato cambiando frutto non mi sembra un’idea cattiva.

-Vorresti un grande abbraccio per tutte le cose brutte che ti capitano e lo chiedi a chi ti fa male, allora lo stronzo forse sei tu.

Scusate dei toni rigidi, scusatemi dei ritardi, scusatemi se non capisco. Io vorrei soltanto che ognuno di noi si sentisse meno perseguitato e più libero di scegliere cose felici. Il dolore porta dialogo, porta spessore e porta pacche sulla spalla. Ma se tuo marito ti mena da vent’anni, gliene vogliamo regalare altri venti?

Non attacchiamoci alle persone come se fossero cose, come se fossero nostre. Un giorno potremmo ritrovarci tutti talmente vecchi da non poterci fare più niente se non pensare che il mondo è una merda e lì fuori sono tutti cattivi. Riconosciamo le nostre di parti stronze e impariamo ad accettare che chi ci fa male sta solo cercando di fare del bene a se stesso.

Io quando litigo con qualcuno mentre guido poi rimango incazzata a lungo, ritorno a casa e magari sono un po’ nervosa ancora. Avrei voluto insultare meglio oppure di meno, avrei voluto non sbagliare incrocio, avrei voluto essere a piedi oppure in campagna a camminare tra i prati. Non lascio andare perché qualcuno mi ha risposto male e io non sono stata vigile, non sono stata attenta. Mi sento offesa e anche un po’ stupida e tutto questo mi fa molto male. Allora chiudo un attimo gli occhi e cerco di immaginare la pioggia che mi cade addosso e scorre via, in un posto dove nessuno arriva. Nemmeno la rabbia, nemmeno il dolore.

Una lite al semaforo non è come una cattiva storia, ma stiamo comunque perdendo tempo e perdendo amore. Trasforma la pioggerella in una tormenta ma lascia che scorra via. Ma sopratutto salvati dai veleni degli altri, non sono queste le battaglie per cui ferirsi, tua mamma non ti ha portato al mondo per perdere la vita dietro agli stronzi. Valle a dare un abbraccio e scusati per il tempo perso. 

E poi guardati allo specchio e fatti un sorriso e dimmi se non ti mancava quella bella faccia che ti ritrovi quando sorridi.

7 lavori orrendi che mi è capitato di fare

Non scriverò di alcuni lavori di merda che ho fatto per lamentarmi di quanto sia stato difficile fare la psicoblablablabla…no. È stato difficile ma magari ve lo racconterò un’altra volta.

Stasera mi va solamente di fare un memorandum di umiltà a me stessa e a chiunque si senta arrivato oppure snobbi senza nozioni di causa lo sporcarsi, più volte, le mani.

Ogni riferimento a cose o persone non è puramente casuale ma ovviamente non c’è niente di personale. Ho cercato di imparare da tutto quello che mi è successo e spero di non smettere mai, però rimane il fatto che in alcuni momenti durante quei momenti di merda, ho sognato intensamente di imbarcarmi su un cargo battente bandiera qualsiasi e dire addio a tutti quanti per sempre e per un giorno in più. Però, e il però è grandissimo, di ognuno di quei momenti ringrazio moltissimo tutti quelli che c’erano perché alla fine è la gente che hai intorno che ti salva le giornate, anche nel lavoro peggiore di questo mondo così tanto infame.

1- Prima di compiere l’età legale dissi di sì a distribuire copie di un giornale sportivo che visse pochissimo. Ogni mattina alle 5:30 uscivo di casa e alla stazione metro Piramide un tipo che non mi ha mai salutata mi lanciava da un furgone in corsa un pacco gigante tipo cadavere in un film di mafiosi. Le due ore successive erano tutta una lotta con due zingarelle e qualche signore anziano che cercava di rubarmi le copie e poi rivendersele o portarsele a casa per farci chissà che cosa. Indossavo un gilet giallo fluo così, giusto per essere sicura che mi si potesse notare anche dalla Tiburtina. Poi andavo a scuola facendo finta di niente, con le mani tinte di nero e in testa tutta la classifica fino alla serie C.

2- A 18 anni comincio a lavorare nel peggior bar di Caracas-Testaccio e per peggiore intendo che rimaneva aperto fino alle 6 di mattina e c’erano almeno 4 o 5 turni di vomitate generali nei bagni che a turno bisognava ripulire. La prima volta tenevo i mignoli alzati, dopo 4 anni lanciavo lo scottex da due metri di distanza e ricoprivo tutto sponda per sponda come un campione di biliardo e senza sporcarmi nemmeno un dito. Verso le 11 arrivavano gli americani che si erano bevuti pure l’acqua della Fontana di Trevi, all’una e mezza ballavano tutti dovunque compreso il bancone, alle 3 partivano le prime risse. Una volta che si era fatta mattina e io non tornavo venne a prendermi mia madre e mi trascinò a casa per un orecchio dopo aver fatto il sermone pure al meccanico a fianco che ormai aveva riaperto.

3- Al terzo anno di psicologia mi ritrovo vestita come un dottore nel più grande e massiccio ospedale della capitale. Non posso dire che fosse un lavoro perché non mi pagavano ma alzarsi tutte le mattine e stare 8 ore nello stesso posto a fare cose per cui di solito ti danno due spicci, è comunque un lavoro. Reparto di psichiatria di cui ricordo con affetto ogni persona che allora mi attaccò la pippa su quanti omini verdi vedesse o qualunque altra cosa perché non lo sapevano ma io li ascoltavo sempre con attenzione e senza giudicare. Cosa che invece mi toccò fare con la capo sala, donna cattiva come la sete nel deserto che trattava malissimo persino il dispensatore dell’acqua. Io passavo le giornate a cercare di ritrovare la strada tra i corridoi lunghissimi e a chiacchierare con un simpatico vecchietto infermiere che ci regalava i panini avanzati a patto che dessimo una rapida occhiata ai calcoli renali che teneva in un carrello con cui passeggiava. In 12 mesi non sono mai riuscita a prendere l’uscita giusta ma sbagliavo sempre ascensore prendendo quello per il trasporto salme, cercando di scomparire schiacciata contro le pareti per la vergogna. Quando hai 19 anni certe cose sono troppo grandi, come quel maledetto camice che mi dovevo mettere senza averne la stoffa.

4- Finiti i cinque anni di università mi ritrovo in una scuola superiore ad aiutare i ragazzi con problemi. Quelli che una volta si chiamavano duri di comprendonio, oggi di tutto e di più ma di solito handicappati. Non prendetemi per buonista se vi dico che loro erano anche e spesso un gioia e si cercava di dare al massimo anche quando sembrava esserci niente. Ma la scuola in sé era completamente fuori di testa. Ci tenevano tutti in una stanzetta in fondo a un corridoio, chiamata appunto Aula H, ma vi pare cosa da fare? E lì dentro sembrava un circo, nessuno sapeva che fare e intanto volavano pennarelli, fogli, quaderni, scarpe, orecchini, bestemmie. Poi c’era il momento del bagno e a quel punto scomparivano tutti o si litigava talmente tanto su chi dovesse portarci i ragazzi, che ogni tanto i poverelli si pisciavano sotto e fine dei giochi. Se non ce l’ho fatta non è perché sia una vigliacca ma perché per certe cose non serve una vocazione, ma un sistema che ti aiuti a farlo senza rischiare di impazzire non per i disturbi ma per il contesto.

5- Un’estate ho lavorato in un call center, ma non in uno qualunque, eh no. Niente coretti motivazionali a inizio giornata e medaglie al valore a fine mese. Un sottoscala caldissimo e senza finestre tranne una piccoletta in fondo in fondo. Una caposquadra che passava il tempo alle macchinette del corridoio a fare controlli qualità sulle merendine in ricambio e un colloquio fatto da un tipo pieno di forfora che non mi aveva neppure guardato in faccia. Al netto si prendevano 0 euro l’ora e il compito era rompere i coglioni a povera gente che viveva in Spagna per chiedere loro quanto contenti fossero delle rate della loro macchina, tramite un semplice questionario che durava 40 minuti. Io non so se vi è mai venuto in mente, ma tenere la gente a fare i controlli qualità, pagandoli zero e pure senz’aria non dovrebbe darvi il diritto di pubblicare certi dati come se fossero scientifici che sono fatti alla cazzo di cane. Nel migliore dei casi.

6- Ho passato un buon annetto e mezzo a fare la cameriera in un ristorante a gestione familiare. Cioè mamma, papà, figlio capricciosetto di 13 anni e amante della mamma che frequentava tutte le sere. Signori, mi hanno davvero trattata come una figlia e ho mangiato mille cose buonissime. Però il contesto familiare voleva dire che ogni giorno stavo sotto il tiro incrociato di uno che odiava l’altra, l’altra che si lamentava di uno, il figlio che urlava cose a caso, il padre che gli lanciava gli zoccoli dalla cucina, l’amante che si piazzava al bancone a fare gli occhioni alla signora che nel frattempo mi tirava il braccio. E lì fuori 70 coperti che aspettavano soltanto me, tranne il sabato che c’era anche un’altra ragazza che aveva impicci con non so chi e beveva mentre lavorava come nemmeno il più incallito dei clienti al tavolo, lasciando la sala piena di cose sparse per terra e dovunque. Tutto questo succedeva nel mio completo e assoluto silenzio generale perché i problemi erano sempre tutti già prenotati peggio dei tavoli.

7- Un inverno decido con un’amica di provare a vendere dei vestiti con un’Ape Car, ignara del fatto che la proprietaria del mezzo e degli abiti avessi i permessi diciamo a metà. Quindi la mattina ci incontravamo in un punto lontanissimo di questa città e con grande e immensa fatica cercavamo di far uscire l’apetta demmerda dal suo garage. Ecco, io non so se qualcuno di voi l’ha mai guidata ma non è una macchinina a scontro, è più come un dannato traghetto. Per ingranare la retro dovevamo essere in due e comunque pregare prima e pure un po’ dopo. Poi facevamo i chilometri con la gente che ci mandava madonne di tutti i colori perché il faceva fumo come un incendio ed era tutto uno smontare e rimontare maglioni e magliette o perché pioveva o perché c’era la municipale. La notte mi sognavo i clacson e le marce e poi, di nuovo, quel cargo battente una bandiera qualunque ma senza la retro.

Non mi pento di niente ma non rifarei tutto e so benissimo che è pieno di gente che è costretta ogni giorno a fare un lavoro orrendo per forza. Vi dico tenetevi strette le persone migliori che avete intorno perché quando tutto il resto fa schifo voi e loro potrete sempre non farlo. E ridere come a scuola nei banchi quando non c’era proprio un cazzo da ridere.

La riflessione è più lunga, larga e dolorosa. Non sono capace a dire tutto quello che penso ma il lavoro di merda può farci diventare di merda anche a noi e questo non dovrebbe succedere mai. Sarà un pensiero ingenuo, senz’altro ma non mi voglio arrendere e anche a costo di perdere molto cercate sempre di dire no quando le cose non vanno bene per niente.

Qualche hanno fa lessi un articolo su un manager andato in disgrazia che si era ammazzato. Aveva moglie e figli e migliaia e migliaia di debiti. Nella stanza dove lo trovarono c’era un biglietto e il biglietto diceva: “Quando ero piccolo sognavo di cambiare il mondo, ora vorrei soltanto uscire da questa stanza con dignità”.

Anche se suona vuoto e forse disperato, che questo possa non succedere mai a nessuno, mai più.

 

Olimpia Parboni Arquati