Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Psicobiografie #1 Steve De Shazer

Raccomandazioni generali: la presente, sintetica descrizione dell’uomo non serva a sperimentare quelli che possono sembrare facili trucchi da soli in casa. Tutto ciò che sembra molto semplice è frutto di anni di studio e forti idee, le cui fondamenta possono essere ammirate o criticate, l’importante è non correre mai con le forbici in mano, ma prenderne spunto per libere riflessioni.

Che razza di vita sarebbe se me ne restassi a casa seduto tutto il giorno?” Così disse il protagonista della storia di oggi, pochi giorni prima di morire mentre si trovava a Vienna per un ciclo di conferenze.

Steve De Shazer (Stiv DeSceiser) nasce in Milwaukee, nello stato del Wisconsin (quanto mi piace dire Uisconsin) da padre ingegnere elettrico e madre cantante d’opera. Prima di diventare psico, si lancia nel mondo dell’arte e della musica, diventando pure un sassofonista pro. Di lui si dice pure fosse molto interessato alla cucina, io dico che è perché è uno di quei pochi momenti in cui noi psi proviamo gusto nello stare zitti e possiamo creare un buon risultato, ma insomma questo lo dico io, alla fine chissà perché, ma soprattutto perché no.

In questo clima di domandarsi è lecito, rispondere non sempre, entriamo a bomba in quella che sarà la sua creatura, la Terapia centrata sulla soluzione, di cui fu fondatore insieme alla moglie, psi pure lei, Insoo Kim Berg (di origini coreane, direi Insu kim berg), nel 1978.

Insomma a 38 anni suoi e qualcuno in più della moglie che era più grande, decidono insieme che basta con questo rivoltarsi a doppia panatura nella ricerca delle cause, piuttosto costruiamo una soluzione.

Qui vedo anche qualche profano infilarsi le mani tra i capelli e gridare all’eresia. Infatti come possiamo credere nella buona riuscita di una terapia che per definizione attacca il nocciolone duro di tutte le terapie. Su questo, da agnostica quale, sono, lascio a ognuno la libertà di interrogarsi a modo suo.

Io penso che fu in buona parte l’incontro con il ragionar del Mental Research Institute, luogo di Palo Alto che andava alla grandissima dagli anni ’60, luogo di cui riparleremo in riferimento ai vari psi che lì dentro hanno lavorato, luogo che la vostra Olimpia ha visitato nell’anno della sua laurea e scoperto trattarsi di una piccola casetta con fiorellini all’ingresso. Questo solo per fare la figura della giramondo, of course, e per dirvi che molto del progresso pare accadere non tra i blocchi di cemento delle enormi città, ma lì dove le strade sono piccole e i tetti bassi. Fu che ognuno sceglie ciò in cui preferisce credere e in alcuni casi lo porta avanti tutta la vita, ispirato dal sacro fuoco della giustezza. Forse è stato una sorta di folie à deux condivisa con la psicomoglie, forse il movimento degli Yuppies del decennio successivo che ci voleva tutti rampanti e presi a bene nel realizzare noi stessi, forse il non troppo vecchio ma legittimo emendamento americano nel diritto alla felicità. Davvero non possiamo saperlo e come direbbe Wittengstein (molto caro peraltro anche a Steve), di ciò di cui non si può parlare, è mejo stasse zitti.

Quindi torniamo ai fatti, l’obiettivo di Steve e Insoo era tutto centrato sulla costruzione di una soluzione al problema, senza pensare al problema o meglio pensando a come in altre occasioni la persona con quel problema lo avesse già risolto e a cose di buono sapesse fare quella persona. Ma per dirla meglio, per loro era importante andare sempre a caccia delle eccezioni e cercare di partire da quelle per costruire un futuro meno problematico. Per dire, a chi soffrisse di una terribile timidezza generalizzata, individuare se ci fosse un contesto in cui non si presentasse e cominciare a sbandolare da lì. O per fare un esempio più harderello, chiedere a qualcuno che si mostra meditabondo sul togliersi la vita, “Come mai ancora non l’hai fatto? Cosa ti ha trattenuto?” a una persona molto depressa “Come fai a portare avanti le tue giornate dal momento che non ci vedi alcuna speranza?” Ora detta così può sembrare molto banale, dal vivo è una questione diversa, non priva di insidie. Si può però certo dire che sia sofisticatamente semplice, questo sì. Per i curiosoni, online si trovano le 100 domande più gettonate dalla Terapia centrata sulla soluzione, con relativa spiegazione. Giusto per farvi vedere come quando una cosa un po’ funziona, i discepoli cercano sempre di costruirci sopra un Vangelo.

Tra le cose usate da Steve ce n’è una, anzi due che trovo molto carine. La prima è la così chiamata “Miracle question” che recita più o meno così: Metti che stanotte succede un miracolo e che una grande bacchetta magica ha risolto il tuo problema durante la notte. Ti svegli e da quale piccolo indizio ti accorgi che il tuo problema non c’è più?” A cui penso la maggior parte di noi risponderebbe “dal fatto che non mi sento sto cazzo di peso sul cuore che mi fa svegliare come se fossi la reincarnazione di Cesare Pavese”, giusto? E qui Steve avrebbe incalzato cercando di farci formulare una risposta più semplice, del tipo mi accorgerei che non ho più il peso sul cuore perché non rimando più la sveglia ma mi alzo a farmi un caffè. Ed ecco che si comincia a costruire questo quadro di noi che stiamo meglio e con piccole cose molto concrete proviamo a trasportare questo quadro immaginario, nella bieca realtà e ci ritroviamo a farci il caffè, con magari sottofondo di podcast poesie di Pavese, ma comunque in piedi.

Altra cosa che trovo carina è la fase dei complimenti, sì esatto, i ohhh ammazza che bravo che sei stato a farti il caffè questa mattina! Che venivano dispensati dopo una piccola pausa che lo psi si prendeva a metà seduta. Sempre secondo me perché magari pure lui sentiva il bisogno di farsi un caffè, buttarci in mezzo una sigaretta, prendere prospettiva come quando una parola non ci viene subito in mente e dobbiamo stare un momento in silenzio per capire la parola che volevamo dire.

Poi troviamo le scale, usate per monitorare l’andamento della terapia e, di nuovo, per costruire insieme alla persona in problemi, un cono di luce sul prossimo passo da compiere per arrivare a quella che lui considera la prossima tappa e così fino alla tappa 10, in cui si suppone che vada tutto come vorremmo.

Enumerando la questione (enumerare è importante per ricordarsi le cose e far sembrare che stai tenendo il punto), i presupposti della terapia creata da Steve e coniuge, sarebbero grossomodo che:

Le persone devono voler cambiare

Le persone sono le più esperte e devono sviluppare i propri obiettivi

Le persone hanno già tutte le risorse e le forze a disposizione per risolvere i loro problemi

La terapia deve esse breve

E deve esse focalizzata sul futuro

Chiaro?

A questo punto uno si immagina il nostro Steve come un simpatico mattacchione dedito al consumo di the verde e prodigo di sorrisi. Invece manco pe niente. O almeno così ho sentito raccontare in un’intervista a tal Louis Cauffmann, psicologo belga che ce lo ebbe come maestro. Pare fosse un tipo piuttosto taciturno, la cui espressione preferita fosse “mmm”, mentre teneva le gambe accavallate e nella mia testa diventa subito Sherlock Holmes. Louis racconta che una volta gli fece un intervento su un suo intervento in seduta, tirando in ballo tutta la teoria sistemica, la società, l’astrologia orientale e occidentale, finché Steve non lo guardò e gli disse “Louis tu ci pensi troppo, prossima domanda”.

A Steve piaceva controllare quello che si può controllare, gli piaceva dire cose come “Il punto da cui guardi le cose determina ciò che puoi vedere e ciò che non puoi vedere. Un cambiamento di prospettiva è tutto ciò che ci serve per cominciare a cambiare”, a Steve piaceva lavorare, gli piaceva sua moglie e si direbbe fosse ben ricambiato, dal momento che la poverina è morta solo qualche mese dopo il marito, e si sa come funzionano queste cose, a Steve piaceva il linguaggio, nelle sue risorse che creano mondi, chissà che non sia per questo che è morto proprio a Vienna, lì dove il filosofo era nato.

Bene, per oggi abbiamo terminato anche se in realtà abbiamo solo aperto una pagina, delle moltissime che si possono aprire per guardarci meglio dentro. Stanotte però magari provate a farvela quella domanda miracolosa, potrebbe sempre muovervi qualcosa di stimolante. Nel frattempo che i pensieri si muovono, vado a mettere su il caffè e chissà che non muova qualcosa anche a me, mentre ci penso, tra una luna e un falò.

Olimpia Parboni Arquati

L’ennesimo post su Chiara Ferragni & Co.

Amici, concittadini, connazionali, prestatemi occhio, se volete, se non volete non fa niente. Io vengo a lodare Chiara, non a disprezzarla. Perché Chiara è donna d’onore e anche gli altri, tutte donne e uomini d’onore. Tutti coloro che della loro fame ne hanno fatto una vita piena di soldi, complimenti, invidie, sogni rubati ai film. Credetemi, non sono una di quelle che si fomenta a tirare le pietre al primo peccatore, che si indigna quando qualcosa le sfugge, no. Io sono solo una che nella vita non sa fare infinite cose e, forse, proprio per questo, si diletta e si tormenta nel riflettere su quello che le accade intorno. Oppure sono sopratutto una che nella vita ha sempre faticato a schierarsi, sul credo politico, sulla fede, sulla psicologia di appartenenza, sulle questioni del buono e del cattivo. Per certi aspetti questa è la mia croce, per altri la ritengo la mia delizia. Alle manifestazioni andavo per capire non per urlare, i giornali li leggo sempre per capire, con le persone ci parlo non per giudicarle, diagnosticarle, infilarle in qualche anfratto dal quale poi mi posso distaccare e sentirmi liberata, come si fa col cambio di stagione e le sciarpe di lana e i costumi. Generalizzare è un po’ una pigrizia dello spirito, una scorciatoia, un cunicolo che dal non sapere mi porta al decidere e quindi al dimenticare. Per questo e per altri innumerevoli motivi non me la sento di prendere una posizione definitiva sulla questione di chi influenza chi, per quali ragioni e quanto. Però succede anche che io non riesca a smettere di pensare a certe idee, che si propongono e ripropongono (come i peperoni, i cetrioli, il cocomero e gli enigmi) e tra questi crucci labirintici della mia indisciplinata attitudine allo schieramento, c’è la questione di come la bellezza fisica e la ricchezza monetaria, si sparga nel mondo, elevandosi a potenza, trascinando nel vortice tanta gente che poi finisce per stare male perché non si sente abbastanza adatta.

Prima dell’estate sono andata dal mio parrucchiere di fiducia, dove una ragazza estremamente bella e anche molto simpatica si è occupata di tinteggiare i miei capelli con estrema cura e perizia. Durante l’opera, inevitabilmente data la mia natura chiacchierosa e la natura stessa del luogo parruccheria in quanto tale, siamo finite a parlottare tra di noi, su cose tipo la vita, i trucchi, i fidanzati. Ecco, lei così carina e giovane, venuta a conoscenza del mio mestiere di psi, si è sentita di raccontarmi come vivesse molto male alcuni aspetti dell’esistenza. Tra questi, su tutti, il confronto virtuale e poi anche reale, con le altre ragazze. Mi ha descritto il lungomare del posto in cui vive, una specie di percorso a ostacoli tra un tacco venti, un labbro a canotto e un glitter. Lei si sveglia alle 5 di mattina per sistemarsi in vista della giornata. Doccia veloce e poi al trucco. Due ore e mezza di preparativi per rendere la sua già bellezza, vicina agli standard del lungomare. Io dalla mia sediola mi sono sentita sprofondare, dal momento che, quando va di lusso, mi metto il burrocacao e il correttore e i tacchi ce li ho pure, ma sotto forma di scarpetta da signora, plantare comodo, base larga, una roba così e niente di più. Oh questo non vuol dire che non abbia i miei vezzi, sia chiaro, ma sicuramente i miei vezzi non mi torturano più di tanto. Però quando ero più giovane madonna se lo facevano. Non uscivo a buttare manco la monnezza senza l’eyeliner, se mia madre disgraziatamente mi faceva portare il carrello della spesa quando la accompagnavo al mercato, pregavo gli dei penati che la terra mi inghiottisse, almeno prima di incontrare il coattone di turno ossigenato di cui all’epoca ero invaghita. Poi vabbè, non dico che sia stato solo il passare degli anni a farmi passare le fisime, però sopratutto. Così senza troppo struggermi sono arrivate tutte quelle cose che tengono la mente impegnata, dalle bollette ai colloqui, alle naturali tristezze che naturalmente la vita ci infila dentro l’unhappy meal che ci viene servito. E l’eyeliner è schizzato in fondo alla classifica, il resto dell’esistenza in cima. Oggi a buttare la monnezza ci vado tranquillamente in ciabatte. Mica perché sono strafottente con la società, ma perché penso alla società non importi molto di stare a controllare Olimpia che scarpe s’è messa stamattina. Quindi sto forse cercando di dire che la questione è meramente, banalmente generazionale? Oddio, non credo, però anche. Quella ragazza soffre sul serio perché sente di essere fuori standard, soffre davvero perché il fidanzato l’ha mollata per una che non ha manco il canotto, ma proprio la nave da crociera in faccia. Lei, insieme a tante, a tanti, soffrono davvero. Non sono fragili, non sono stupidi, non sono roba da psicologi anche se poi finisce che ci diventano. Sono soltanto sottoposti notte e giorno, notte giorno, notte e giorno, a modelli che influenzano la loro realtà. Mi piacerebbe poter dire “sottoposti a persone influenti”, “vittime dell’intellighenzia”, ma non posso perché queste parole non c’entrano più. C’entra quanta invidia riesci a muovere nel cuore di chi se ne sta buono buono nella sua stanzetta a provare a sognare a che cazzo vorrebbe fare da grande, senza riuscirci tanto bene come potrebbe se fosse più libero da tutta questa costante pressione visiva che scorre incessantemente nei nostri piccoli apparecchi mobili sempre in mano. Insisto, non ne faccio una questione di causalità lineare, del tipo dato A quindi B, però che faccio? Evito di pensare che un po’ di causalità circolare non finisca per entrarci? Qualcosa, amici, cittadini, connazionali, qualcosa dovrà pure entrarci oppure sto delirando?

La parte più gattara di me vorrebbe urlare “Ao ma non lo vedete che in fondo in fondo, tutto questo esporsi non è da dive di Hollywood ma è proprio da mignottoni?” e ancora “Ao ma quanto delle mie chiappe devo mai esporre per sentirmi viva e sistemata?” Eppure ho sempre pensato che per vivere felici quanto basta servisse sopratutto farsi il culo, non sbandierarlo così voracemente. Sono una bacchettona che si avvia verso la vera vita adulta e perdendo tono muscolare e guadagnando rughe si mette a rompere le scatole su quanto sia vanesia la bellezza fisica? Certo, potrebbe anche essere, in fondo non sono mai stata la prima della sfilata, non sono bionda né dentro né fuori, non sono Miss niente. Mi starò difendendo dal mio essere così normale, cercando di aggredire con l’unica arma forse un po’ affilata del mio armadietto, cioè con quattro parole? Può essere, tutto ma proprio tutto può essere. Allora qualcuno mi spieghi perché mi sento così triste invece che così arrabbiata, cosa più congeniale alla natura che mi riconosco. Sono proprio dispiaciuta dentro, in fondo alla gola, in cima allo stomaco. La cosa che mi fa più male è che se c’è una cosa che mi lega alla vita in quanto luogo bello in cui vivere, sono le storie. Quelle che ho letto, quelle che ascolto, quelle che immagino, e nelle storie belle succede sempre che prima il protagonista soffre molto per qualche motivo, poi soffre ancora, e ancora, e ancora. Poi intravede un sentiero, lo prende, incespica, si rialza, incespica di nuovo e poi alla fine della fine, tutto graffiato ma pieno di avventura e gloria, arriva dove voleva arrivare. Io questo brivido della narrazione non sono disposta a sacrificarlo sull’altare della bellezza, non ancora. Ancora mi piacciono gli eroi, i modesti, i preoccupati, i dubbiosi e i coraggiosi. Ancora identifico in ciò che vorrei essere gesta che non somigliano per niente alla compulsiva esibizione di tutto quello che possiedo, ma di quello che sono. Paperino mi sta simpatico, Tina Modotti, il gatto con gli stivali, Tesla, Pavese, il radiofonista della Tenda Rossa, mio nonno che è tornato a piedi dalla Russia, i vecchietti che sorridono, Don Chisciotte, tutti i Giusti della poesia di Borges, Carver che scrive racconti nel suo garage di notte, Frida anche se se ne parla troppo, Giordano Bruno, Galilei, Robin Hood, il mio idraulico che non fa mai la cresta, Philippe Petit, Giovanna D’arco, Simenon, Moll Flanders, Rita Hayworth, Liz Taylor con tutti quei mariti, Steve Jobs con le sue magliettine, le mie amiche, i miei pazienti che sono supereroi, i miei genitori, me stessa quando ci provo fino in fondo. A me sta simpatica tanta gente. Però non ne posso più di vedere le solite quattro facce comparirmi davanti anche se io non lo scelgo e insieme a loro anche i loro parenti, i loro armadi, le assi delle loro tazze del cesso, poi ancora tette giganti e chiappe dappertutto e muscoli oliati e mai nessuno che sorride e se sorride sorride in maniera plastica ed esibizionista, sempre con i denti e mai con gli occhi.

Non è così leggero e semplice, non basta dire che qualcuno si è fatto da solo per dire che è stato intelligente, casomai è stato furbo, come gli spregiudicati, che poi del giudizio altrui non è vero che non se ne interessano perché vogliono piacere sempre, a tutti, a ogni costo. Io questa curva dell’eroe se non la vedo non mi emoziono perché non mi arriva niente, tranne un processo di identificazione forzata che mi ricorda le litanie delle sette, che a forza di sentirle finisci per crederci pure tu. Essere buoni venditori di se stessi, per me, che non sono nessuno se non quella che sono, vuol dire che a un certo punto smetti avere fame di avere e cominci a dare, ma a dare veramente, mettendoti da parte proprio perché sei stato così furbo e così avido e così al centro. Usque tandem abutere, Chiara Ferragni & Co., patientia nostra?

Perché se io fossi Chiara Ferragni & Co. e Chiara Ferragni & Co. Olimpia, qui ora ci sarebbe un’Olimpia che proverebbe ad abusare veramente di tutto quel potere, invitando ognuno di voi a non essere come loro, a essere quello che vi pare di essere, quello che sognavate sul serio di essere, prima che i sogni di qualcun altro coprissero i vostri con i loro, prima che tutta questa fame del possedere sempre di più vi facesse diventare ciechi e stronzi, prima di scordarci che tanta influenza, oh quanta influenza, potrebbe ancora servire a spingere verso la libertà, al posto di questa condanna alla tristezza eterna, visto che l’obiettivo è sempre spostato più avanti. Più cose, sempre più cose fino a seppellirvici sotto a tutte quelle cose e dimenticare qualsiasi altra ricchezza, qualsiasi altra bellezza. Io di quel potere ne approfitterei fino a sconquassare i vostri spiriti e a donare ad ognuna della vostre ferite una lingua così eloquente da spingere fin le pietre del mondo a sollevarsi, a rivoltarsi.

 

Olimpia Parboni Arquati

La posta di Olimpia – Vorrei arrabbiarmi ma non ci riesco

Cara Olimpia,

Ti scrivo perché questa sera nulla riesce a rendermi felice e in un loop di sensi di colpa (visto che non posso lamentarmi della mia vita) ti lancio un grido d’aiuto! Ti scrivo perché non riesco ad essere me stessa, non riesco ad “arrabbiarmi” come fai tu, perché sto sempre a pensare se è giusto o se no e che impressione farebbe agli altri…Quindi opto per una perenne calma gentile, mentre dentro mi sento bollire…Di ansia, rabbia, di tutto…Ma nascondo…Finché non esplodo ma sempre in privato! La verità è che da piccola non ero affatto cosi, ma col tempo mi sono scontrata con cosi tanti muri che ho imparato a moderarmi sempre di più, ma in questo modo è come se avessi una corazza di gesso che mi immobilizza!

Come devo affrontare questo disagio? Come posso riuscire ad essere me stessa con moderazione ma senza ingessarmi? Grazie mille e complimenti per la tua rubrica, per il tuo blog e per il tuo bellissimo lavoro!

S.

Cara S.,

è ormai da qualche anno che dico di voler fare anche a Roma quella che hanno chiamato “Rage Room“, cioè la stanza della rabbia. Forse ne avrai sentito parlare, o magari no. Ad ogni modo si tratta di un posto; pensato originariamente in Giappone, poi portato in Serbia, Stati Uniti e, se vado aggiornata, anche Milano, dove entri e spacchi tutto. Sì esatto, ci sono delle cose dentro tipo vecchie bottiglie, mobili da buttare e così via e tu entri con una mazza da baseball e appunto spacchi tutto. Nel mio progetto ognuno si può scegliere la colonna sonora che preferisce.

Personalmente poi provo sempre un certo senso di soddisfazione quando nei film il protagonista si ribella a qualcosa o qualcuno, facendo una scenata da vero capo retore e mettendo ognuno al suo posto, sfoderando un eloquio che guarda manco Gorgia con un copione di Shakespeare. Oh sì, ammettiamolo. Per quanto disdicevole sia alzare la voce e dire le parolacce e sbatacchiare varie ed eventuali oggetti presenti nella traiettoria della nostra ira, la nostra ira è una notevole fonte di energia, che racconta con meno pudore un nostro sentimento. Per quanto sappiamo non sia cosa giusta, se ci capita di imbatterci in una rissa, rallentiamo per vedere che succede. E così potrei farti vari altri esempi ma sento che ci siamo capite.

Alcune persone hanno una valvola di sicurezza come quella delle pentole a pressione, che funziona meglio di altre. Io penso alla mia bisnonna che era di poche e severe parole. Una signorona romana che a tavola il tovagliolo non te lo passava, te lo lanciava. Non l’ho mai conosciuta ma posso dirti con sicurezza che c’è qualcosa di lei che è arrivato fino a me. Ma genetica e alberi genealogici a parte, a volte succede come dici tu. Ci provi una, dieci, duecento volte, ma poi scegli la strada che ti costa meno fatica, anche se non è quella che preferisci. Come qualunque cosa, anche la rabbia se non la usiamo mai, dopo un po’ si atrofizza.

Probabilmente tendola tutta per te e vedendola scoppiare solo ogni tanto quando proprio non ce la fai più e lontano da occhi indiscreti che potrebbero giudicarti, hai piano piano cominciato ad avere paura tu stessa delle tue reazioni e pensi che se dovessi mai scoppiare in pubblico, sarebbe di sicuro un macello. La fregatura è che proprio conservando questa energia per i momenti in cui sei stremata, la vedi comparire in tutta la sua magnificenza.

Sì, se te lo stai chiedendo, questo è quello che si chiama circolo vizioso e appunto ci manda in loop. Che poi volersi lamentare di qualche cosa anche se formalmente ci sembra tutto a posto, non è un crimine, anzi. Magari invece andrebbe tutto meglio se ci mettessi un po’ più di quello che sei in quello che fai. Lo so, è dura pensare che per esprimere la nostra opinione dobbiamo correre il rischio di deludere qualcuno, di non piacere a qualcuno, persino a noi stessi ogni tanto. Ma ti assicuro che ogni perdita è commisurata a un guadagno, il guadagno di nuovi aspetti che non pensavamo di avere o di saper esprimere.

Come una gamba ingessata da tanto tempo, non possiamo pensare di fare subito la maratona. Bisogna iniziare a rimettere in movimento quella parte, ma con moderazione e con calibro. Per questo ti vorrei invitare a fare un esperimento e vedere come che ne viene fuori. Prima puoi caricarti pensando a tutte le volte che avresti voluto parlare ma non hai detto nulla e vedendo il monologo di Edward Norton ne La 25 esima ora e la scena al fast food di Micheal Douglas in Un giorno di ordinaria follia, oppure se preferisci va bene anche Verdone che fa l’italiano emigrato in Germania che ritorna per votare, sta zitto per tutto il film, fino all’ultima scena in cui manda tutti al tappeto.

Una volta che ti senti bella rinvigorita e con le mani che ti formicolano prendi un bel foglio e buttaci dentro tutte le invettive ingiuriose più scostumate che ti vengano in mente. Vale prendersela con chiunque e qualunque cosa, dallo stendino che col vento si chiude sempre, al vicino di casa che sente a palla Gigi D’Alessio. Scrivi senza badare alla forma, alla maiuscole e alla grammatica e sopratutto senza censura. Fermati solamente quando senti che hai finito le scorte di proiettili verbali.

Se ci dovessi provare gusto puoi anche farlo più volte, tutte le volte che ti senti bollire. Secondo me scoprirai che lì dentro c’è molta più capacità di incazzarti di quanto pensi ma meno rabbia di quanto temi possa esserci. Anche la rabbia, come tutte le tentazioni, ha bisogno di qualche concessione per fare sì che le si possa resistere. O comunque concedendotela in maniera libera e allo stesso tempo anche protetta, potresti capire meglio qual è la direzione in cui vorrebbe andare.

Una curiosità dal mondo Psi: esiste la Terapia dell’Urlo Primario, inventata da Arthur Janov, in California negli anni ’70. Secondo l’autore se ti tieni tutto dentro t’ammali (ovvio che qui potremmo annoverare una lista cospicua ma volevo essere severa e sintetica tipo la bisnonna) quindi devi urlare perché ti fa bene. Janov è diventato nome noto nella musica perché ebbe tra i suoi pazienti anche John Lennon (non so te ma io ce lo vedo che urla col gonnellino di foglie di castagno sulle scogliere del Big Sur) e la sua teoria ha ispirato il nome di ben due band degli anni ’80, I Primal Scream e Tears for Fears, ma pensa un po’.

Poi un’altra cosetta che magari può tornarti utile, se ti capita di voler dire una cosa per la quale pensi che qualcuno possa rimanerci male, prova a dire subito che ti dispiace pensare che quello che dirai farà dispiacere l’altra persona e che vorresti non dirlo, ma che lo dirai lo stesso così che casomai se ne possa parlare insieme. Può sembrare una sciocchezza, ma avvisare l’interlocutore che staremo per essere sgradevoli, è un modo per risultare meno sgradevoli, senza però rimanere in silenzio. Oh artifici della retorica, oh captatio benevolentiae, oh pizzico di paraculaggine se vogliamo!

Tante volte succede che smettiamo di dire di no perché ha i suoi vantaggi, però finiamo per occupare il ruolo degli accomodanti e non è per niente facile interrompere un copione che conosciamo a memoria. Se vogliamo costruire una nuova abitudine dobbiamo muoverci per passi così tanto piccoli che nemmeno noi ci accorgiamo di stare trasgredendo a quella parte più allenata di noi stessi, eppure così tediosa. Facendo piccoli variazioni sul tema disobbedienza alla gentilezza cieca, correrai non solo il rischio che qualcuno disapprovi, ma anche quello di finire in interessanti discussioni in cui ti riscopri ragionevole ma non indifferente.

Ti saluto con una frase di un altro autore del girone degli irosi, Emil Cioran, che diceva: Se obbedissi al primo impulso passerei le giornate a scrivere lettere di ingiurie e di addio. Le giornate tutte magari no, però quei cinque minuti quando ti prendono i cinque minuti, beh cara, secondo me sono tutti tuoi.

Un abbraccio,

Olimpia 

 

 

Contro il dominio della resilienza

La vita è quella cosa a cui per partecipare devi garantire l’iscrizione all’albo del dolore e pagare la tua quota, senza sapere a quanto ammonterà. Il dolore è quella cosa che ci cammina a fianco, senza sapere quando ci prenderà per mano e che ci rende fragili. Sì, fragili. Il contrario di resilienti.

Per chi ancora non lo sapesse, la resy, è un termine rubato all’ingegneria, per il quale certi materiali non si rompono con l’urto, ma incassano la botta, tornando alla condizione di partenza. Cioè se vogliamo rubare anche alla filosofia possiamo bussare anche alla porta di Cavallo Pazzo Nietzsche e tradurlo con ciò che non ti uccide troppo, ti fortifica. Oppure ancora possiamo fregarcene dei materiali e della filosofia, rimanendo fedeli all’etimologia, e dire che la resy è quella cosa per cui se casco dalla barca allora ci risalgo. Così, con nonchalance, praticamente da asciutto, senza scompigliare un capello, senza affogare un attimo, senza cagarmi sotto che magari non riesco a risalirci su quella dannata barca. Non c’è che dire, è una bella visione eroica questa che ci vede così granitici nel districarci dai dolori. Tutto un cadere da cavallo e risalirci graffiati ma intatti fuori e integri dentro, come se in pratica tutto il mondo ci dicesse che dobbiamo resistere alle disgrazie e uscirne fuori splendenti come coattissime fenici.

Ora io perché sono così contraria al diktat della resilienza, perché sono una rompicoglioni ()? Perché non sopporto i tatuaggi inneggianti al qualunquismo dai segni dell’infinito alle parole modaiole ()? Perché, sopratutto, mi dispiace, e mi dispiace in un punto molto profondo del mio cuoricino, che a botte di positivismo rischiamo di dimenticarci l’incredibile bellezza della vita, gloriosa proprio per il suo disordine, grandiosa proprio per la sua cavolo di caducità.

Tempo fa mi capitò un incontro con un eroe (i pazienti io li chiamo così) che venne da me dicendo che non aveva potuto dire a nessuno che sarebbe venuto da me perché se no avrebbero tutti pensato che era fragile (le parole precise furono in realtà “mezza pippa ar sugo“). E chiaramente non è stato e non sarà l’unico a paragonare una richiesta di aiuto a una dichiarazione di sconfitta. Ma la cosa vale ovviamente pure fuori dalle considerazioni sulla psicoterapia, vale in maniera trasversale, in tutti i contesti in cui la resy infesta la pianta della fragilità come ortica infestante.

Quello che rischia di succedere è che si avrà sempre più paura del dolore, anzi no, non del dolore, ma delle persone che lo provano. Si avrà sempre più paura dei tristi, dei piagnoni, degli scomposti, dei persi, degli scontrollati, dei perdenti. Paura di noi quando saremo simili a loro, quando saremo loro. Io credo che nel modo in cui sta resy ci viene prepotentemente proposta, si dimentichi sempre di onorare il momento di passaggio tra l’inizio e la fine di un problema. Come dire, una fiaba senza intreccio, obbligata al lieto fine.

Non è d’oro il finale, è d’oro ciò che sta in mezzo, la trama che al finale ti ci porta ma non ti ci catapulta come se il tuo dolore non avesse alcuna dignità. Tantissimo si può imparare dai momenti ardimentosi, ma non vedo come si possa pensare di arrivare alla cima senza prima aver scalato (nota del secchione, Cavallo Pazzo Nietzsche amava assai camminare sulle montagne e da sopra poi contemplare il panorama. Soprauomo, non superuomo perché aveva il pisello più lungo di tutti, così per amor delle parole).

Se non la finiamo di perdere interesse nel processo, rischiamo di demonizzare sempre di più i tempi del dolore, che sono lunghi come le ere, come tutte le cose che possono insegnare, dobbiamo prenderci il tempo per capirle. O per capire che non possiamo capirle e dagli stracci che ci sono rimasti, risalire sulla nostra piccola zattera di fortuna a navigare i tempi e le tempeste. Tenendo a mente che se mai usciremo dalla tempesta, non lo faremo rimanendo uguali a come ci eravamo entrati (semi cit del buon Murakami, che può piacere o non piacere, ma nel suo essere orientale, sicuramente smandruppa meno le palle con questa storia della fretta).

Abbiamoci pietà di come siamo fatti, portiamo rispetto ai tempi cupi, portiamo rispetto al modo in cui siamo fatti. Non di obiettivi aziendali da mettere sul tavolo a fine giornata, ma di carne, spirito e mestizia. E di fragilità, di morbidezza, di delicatezza. Siamo come gli scatoloni che trasportano cristalli con sopra l’adesivo, trascinati senza grazia da facchini troppo occupati per trattarci con i guanti.

Se ci togliamo anche la libertà di stare male e non vedere soluzioni, non ci togliamo solo l’occasione per parlare con noi stessi, ma ci tagliamo via proprio una fetta di vita. Anche da triste io posso sorridere ad un anziano che porta a spasso il suo cagnolino anziano pure lui, anche da triste io posso leggere una poesia e capirla, posso capire meglio il dolore del mondo, posso stufarmi di essere triste e cominciare a cercare il bandolo del matassone, tirando da varie parti, incontrando sempre nodi e ad ogni nodo fermarmi a riflettere o anche a piangere se è necessario.

C’è nel dolore sempre un momento di indicibile sconforto, di assoluto smarrimento. Ecco, credo che sia in quei momenti l’unica possibile rinascita. Più che dalle proprie ceneri, dalla foresta in cui ci perdiamo nella ricerca di nuova legna da ardere per tenere viva la fiamma dei giorni.

Fragile è chi pensa che essere fragili sia da deboli e chi vuole solo arrivare, senza prima concedersi di non conoscere la strada. Poi davvero non so voi, ma io preferisco essere nata fiore che essere nata acciaio.

 

Olimpia Parboni Arquati

Mai smettere di fumare

Quando finisce un grande amore non esistono messaggi per sapere come vanno le cose e non esistono caffè. Esiste solo la malinconia. 

Il primo giorno non è mai il più duro di tutti perché sei gonfio dell’adrenalina della grande scelta e sottovaluti il modo in cui le cose si svolgeranno. Pensi solo che hai smesso di fumare, come se non ci fosse né passato né futuro fuori dalla tua decisione. Al ciao come stai rispondi che hai smesso di fumare e se ti chiedi come stai, ti rispondi solo che hai smesso di fumare. Ma la verità è che stai di merda. O almeno io. Perché io è così che mi sento, come se il grande amore della mia vita mi avesse mollato, no meglio, come se io avessi mollato il grande amore della mia vita perché era troppo stronzo.

Sarà stato pure stronzo però…però ci amavamo. Sotto la pioggia e al mare, controvento e alle fermate degli autobus, dei treni, dei tram, della metropolitana quando ero molto triste, o felice. Ci amavamo nei bagni, sui divani, a tavola, ci amavamo in finestra. Ci amavamo quando faceva troppo freddo per amarci e troppo caldo. Prima degli esami, dopo gli esami, prima delle visite, dopo le visite. In mezzo agli amici e da più grande anche in mezzo ai parenti. Ci amavamo negli spazi piccolissimi degli aeroporti dove tutti si amavano tutti accalcati. La mattina presto, a metà mattina, a pranzo prima e dopo, a cena prima e dopo. Mentre bolliva l’acqua, per la pasta, per il tè. Ci amavamo quando avevo paura, quando non sapevo cosa fare della mia giornata, della mia vita, dei miei capelli, dei miei vestiti, delle mie scarpe, dei miei sensi di colpa e di quelli di responsabilità. Ci amavamo praticamente sempre, cazzo.

E allora perché ho smesso? Beh, ho smesso perché non ci amavamo e basta, ma ci odiavamo anche. Alle 3 di notte quando avevo solo 20 euro nel portafogli e finivo a fare la spesa al distributore, due Snickers, due pacchetti, un accendino Smoking. Per una sigaretta che poi sapeva solo di petrolio e fretta. Al risveglio quando facevo colazione con caffè e tosse, quando mi ammalavo e mi facevo i cicchetti di sciroppo solo per poter fumare. Ci odiavamo da morire quando fumavo solo perché stavo avendo una conversazione noiosissima e volevo distrarmi. Tutte le volte che volevo distrarmi, in generale. Dal lavare i piatti, stendere i panni, uscire di casa, tornare a casa, pulire casa, fare qualcosa, qualunque cosa, tutte le cose scandite da un adesso mi fumo una sigaretta e lo faccio. Un eterno ripetersi di ancora cinque minuti e poi mi alzo per andare a scuola.

Anni di ritardi, di accendini colorati, di sigarette fumate con persone di qualunque tipo che diventavano più amiche semplicemente perché ci stavi fumando insieme. Come è fatta una pausa adesso? Che cosa faccio, cosa devo guardare, cosa devo dire? Cosa faccio quando quello davanti a me al supermercato ha un spesa alta tre piani e sono incastrata lì a pensare a quanto mi rode il culo, cosa faccio quando finalmente esco se non mi fumo una sigaretta? Cammino e basta? Guardo le stelle, la gente, conto le macchine rosse? Entro dal tabaccaio e mi compro le Morositas e basta come alle elementari? Ma sopratutto, come lo scandisco il tempo se al tempo ho tolto le sigarette e mi rimane solamente il tempo?

Ero allo specchio, ho visto una ruga nuova, evidente, profonda, maleducata, all’ angolo della bocca. Ho pensato adesso mi compro una crema carissima, mi compro la Sisleya e vaffanculo, mi faccio tutti filler e arivaffanculo. Mi fumo una sigaretta mentre cerco i prezzi su Internet, me ne fumo un’altra quando li vedo. Posso compensare con la vitamina C, adesso scendo e mi compro le arance. I pompelmi, i limoni, me ne accendo ancora un’altra mentre cerco  dove altro sta la vitamina C. Mi metto a tossire, mi soffio il naso e mi vergogno da morire per gli ultimi venti minuti, per i quasi venti anni della mia vita in cui ho comprato un pacchetto di Camel celesti quasi tutti i giorni.

Non voglio essere la versione che vorrei essere di me stessa solo quando mi accendo una sigaretta e sogno. E non so fumare quando capita, non sono una tipa da grandi occasioni. Io sono un’esagerata, senza confini, senza moderazione. Senza più le sigarette in tasca. I soldi per fumare non li ho mai valutati, i rischi nemmeno. Chi fuma non valuta, fuma e basta. E se dovesse valutare allora si accende una sigaretta e poi lo dimentica. Chi fuma però perde una parte di attenzione che a qualcos’altro forse va pure data. I miei occhi dalla sigaretta con il tramonto al tramonto e basta. Dal dolore con la sigaretta al dolore e basta, alla felicità e basta. Basta. Vediamo com’è la vita e vediamo se mi basta.

Sono qui con una tisana alla liquirizia sul bracciolo della poltrona, adesso che chiudo tutto porto giù il cane, nel frattempo controllo se ai lampioni hanno rimesso le lampadine. Al ritorno prendo il volantino della Conad che ho visto stamattina nella posta, lo sfoglierò mentre cuociono le lenticchie. Chissà quanto costa il prosciutto crudo al chilo, chissà se c’è il tonno in offerta. E domani quando mi sveglio andrò fuori sul balcone a guardare i tetti delle case, tenendomi le mani sui fianchi come i signori di una certa età fanno in spiaggia guardando il mare.

Ho vinto del tempo e una dolce e feroce malinconia. Se vi rimane possibile, un consiglio, davvero, mai smettere di fumare.

 

 

Olimpia Parboni Arquati

La posta di Olimpia

“Quindi tu da piccola devi aver detto un sacco di bugie”, questo il commento meraviglioso del figlio di un’amica che all’epoca aveva 5 anni, quando gli raccontai brevemente la storia di Pinocchio e del suo naso. In realtà è una cosa che mi riesce veramente male e devo dire che negli anni si è rivelato un gran difetto e un discreto pregio insieme. Ve lo accenno perché scrivere queste righe è per me un gesto molto difficile, adesso vi spiego come mai. Alcuni mesi fa, forse un annetto ormai, mi è venuto in mente di introdurre questo spazio qui delle letterine perché oh, è una rubrica dei giornali che ho sempre letto con grande interesse e nel mio piccolo volevo fare lo stesso. Evitando quelle risposte stracciapalle da psicologa in cattedra o quelle stile forum degli ipocondriaci in cui ti dicono “non abbiamo informazioni sufficienti per risponderle, si rivolga al suo medico”, ma provando veramente a rispondere qualcosa che potesse essere utile per qualcuno.

Non mi ricordo chi mi disse di non fare come Natalia Aspesi che a un certo punto si scriveva le lettere da sola e io risi molto promettendo che non l’avrei mai fatto e poi comunque non saprei scrivere con uno stile troppo diverso quindi mi avrebbero sgamato subito. Le cose sono andate in un altro modo, che di lettere ne ho ricevute tantissime, lunghissime, bellissime, personalissime. E allora io che ho fatto, mi sono sentita felice come il coniglio Pasqualone per parecchi mesi, mi sono rimboccata le maniche della tuta da casa e ho risposto a qualcuno. Poi però ho smesso. Ho smesso perché sono stata pigra e forse anche un pochino stronza. Ho smesso perché mi sono spaventata di tutte quelle parole e ho smesso perché ho avuto paura di non saper rispondere.

In questi mesi non ho mai smesso di pensare che il giorno dopo l’avrei fatto, ma quel giorno non è arrivato mai. Ho pensato anche di rispondere con enorme ritardo, inventandomi scuse varie, dalla cartella spam che me le aveva nascoste, al virus, al braccio ingessato. Ma la verità è soltanto quella che ho raccontato. Quindi vorrei chiedere scusa, se per caso lo stessero leggendo, a quelle persone che mi hanno detto tanto e sono rimaste con niente. So che non vi avrebbe cambiato la vita, ci mancherebbe, però che scorrettezza in ogni caso.

Se quel giorno non è mai arrivato, è arrivato questo in cui mi e vi propongo di ricominciare da dove eravamo rimasti e di permettere ad altre storie di trovare uno spazio. E anche se non è nella mia natura, vorrei mettere delle condizioni perché so che possono aiutare a non farmi ritrovare a chiedere di nuovo scusa tra un altro anno.

  • Che mi diate l’ok a renderle pubbliche, ovviamente togliendo tutti i dati personali a meno che non vogliate metterci il nome. In questo modo vinciamo entrambi. Se avessi due o tre vite una la passerei a rispondere a chiunque su qualunque tema, ma le ore della giornata sono poche quindi il regalo deve essere reciproco.
  • Che siano brevi abbastanza da poter essere pubblicate per intero. Non perché la lunghezza sia cosa da temere, ma devono poterle leggere tutti, anche i meno allenati a leggere e non vorrei mai fare un lavoro di editing in cui taglio io parole vostre.

Le condizioni sono solamente queste due, per quanto riguarda la fiducia vi do la mia parola personale e anche professionale che non ne farò mai e poi mai nessun utilizzo diverso da quello che vi ho detto e che il vostro nome rimarrà un’informazione segreta come fosse della CIA.

Come ogni regola, anche in questa ci sono delle eccezioni e per spiegarlo userò un esempio di una scrittore che mi piace tanto, Goffredo Parise, che per un anno tenne sul Corriere della Sera, una rubrica del genere. Di norma non rispondeva mai a quelle anonime, nel mio caso risponderei anche senza pubblicare nulla, a lettere come quelle di un tale Michele, che si firmò soltanto con il nome a cui Parise rispose lo stesso perché in quelle righe gli parlò della sua voglia di scendere dal mondo, dando una delle risposte più semplici e belle ed eleganti che io abbia mai letto: «Mi dispiace molto che lei non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato da vivere (qualunque essa sia, sempre bella appunto perché imprevedibile come il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo».

L’indirizzo è questo: olimpiaparboniarquati@gmail.com

A presto,

Olimpia

Disturbo ossessivo compulsivo da relazione tua zia

La prima volta che ho sentito parlare di sta cosa sono stata buona. Cioè, ho sentito come un guizzo di voglia di fare a botte ma poi mi è passato. Mi sono sentita proprio come Begbie di Trainspotting quando si lancia la birra alle spalle mentre sta nel pub e fa quel rantolo che gli viene dal profondo mentre si riscalda le nocche. Poi l’ho sentita di nuovo e niente, invece del boccale mi è venuta voglia di fare il lancio del peso con tutto il fusto della birra.

Cominciamo subito dal peggio, gli esperti stanno lavorando su un’App che consentirà rapidamente di distinguere a che grado di ossessione compulsiva relazionale ti trovi tu o il tuo innamorato, dandoti poi istruzioni su come procedere. Ecco questa cosa l’ho letta cinque minuti fa e ho ancora le mani che mi formicolano. E sì, mi pare evidente che non sia una persona dal carattere troppo morbido, ci sono cose che mi fanno incazzare proprio come si incazza mio zio Michele che ha 80 anni mentre sta seduto coi compari sulla panchina e discutono degli acquisti calcistici, alternando lunghi sbuffi a lunghissimi insulti sparsi. 

Non lo faccio solo perché arrabbiarmi mi viene facile, in questo caso lo faccio perché davanti a certe perversioni del Positivismo bisogna pur lanciare qualche boccale volante e vedere che succede. Ma vediamo di fare i seri e fatemi procedere con la spiegazione del mio nemico di oggi. Dal 2014 si parla di (anzi, “le ricerche scientifiche rivelano che…” e su questa mi si chiude la prima coronaria) “Disturbo ossessivo compulsivo da relazione” quando in pratica tu o il tuo innamorato passate un sacco di tempo a chiedervi se state facendo la cosa giusta. Se non riuscirete a trovare qualcuno di migliore, se rifuggite come la peste le commedie romantiche, le uscite a quattro, i cuoricini d’argento da appendervi al collo e se conoscere la sacra famiglia della controparte vi produce una sensazione che pare un potente ceppo di influenza intestinale. Quindi insomma, L’Intelligencija vuole che gran parte dei gggiovani adulti si smandruppino di segoni mentali ogni volta che si ritrovano in coppia. Ossessionati dalla giustezza della relazione si smandruppano doppiamente l’anima con domandone da terzo segreto di Fatima tipo chiedere conferme a tutti, panettiere di fiducia compreso, per essere rassicurati che stiano andando bene. E così la mia testolina che ha tante carenze ma forse non patisce di poca fantasia, si ritrova a immaginare scene di te che telefoni a tutta la rubrica dicendo “Oh quanto tempo eh, ma senti un po’, secondo te io e Carletto stiamo bene insieme? Chiedi pure a tua cugina già che ti trovi e fammi sapere. Baci baci.”

In pratica tutti coloro che si interrogano così tanto sul valore della propria relazione, al punto che tali segoni mentali inficiano la qualità del resto della vita, sono affetti da tale disturbo. Chiarissimo, no? Non siamo un po’ vigliacchi, non abbiamo paura di scegliere, non siamo in fondo comuni mortali figli dei nostri tempi che si fanno delle domande sull’amore. No, siamo dei maniaci del controllo che tengono a bada l’ansia rompendo il cazzo al prossimo con i propri suddetti segoni mentali. Molto bene, se le cose stanno così allora io mi metto a coltivare il mio orto come Candido di Voltaire e buonanotte a tutti. Strappo via tutte le mie buone intenzioni e mi dedico alla cura e alla salute del prugno selvatico che mi infesta il giardino, tagliando tutti i rami secchi che mi pare con la motosega e la maschera di Brian così per darmi un tono.

Ma ragazzi, ma Intelligencija, ma stato dell’arte della psicologia, ma come vi viene in mente di non consultare un appassionato di sociologia prima di gridare alla patologia? Io credo davvero che ogni bravo psi dovrebbe avere in rubrica almeno un amico saggio abbastanza che si diletti nelle letture di altri campi, formalmente lontani dalla psicologia ma indispensabili. A tal proposito vi consiglio, per chi non l’avesse mai toccato, la lettura di Amore Liquido di quel simpaticone illuminato di Bauman. Così, a scatola chiusa e senza spoiler.

Che poi quando uno si mette a criticare le definizioni già esistenti pare che debba subito passare dall’altra parte, cioè dalla parte di chi cambia un nome per un altro. E io non voglio. Non penso di aver bevuto un caffè di verità infusa stamattina a colazione né mi sento più capace di altri a dare i nomi alle cose. Sono solo una psi qualunque in un puntino dell’universo a cui piace normalizzare tutto quello che si può normalizzare perché se mi appoggio a tutte le malattie che trovo finisce che oggi mi sento sollevato, ma domani mi sveglio zoppo. 

Se volessimo fare del bene ai nostri giorni credo che dovremmo interrogarci più profondamente sul senso della paura in tutte le sue manifestazioni. Però quando la paura tocca l’amore allora io mi tiro indietro, non riesco proprio a mettere in relazione la forza che move il sole e le altre stelle con i manuali di psicodiagnostica. Perché se la nostra voglia di trovare significato non riesce a trovare l’umiltà per abbassare la testa nemmeno davanti all’amore, miei cari, siamo fritti e siamo pure un po’ fottuti. Fottuti dalla nostra stessa paura. O peggio ancora, dalla paura che l’amore ci farà paura. Beh, sapete che c’è, è inutile tenersi il dubbio, le relazioni fanno e devono fare un po’ paura, altrimenti finiamo per portarle allo stesso livello della scelta delle arance dal fruttivendolo. Se non ti muove niente vuol dire che lo stai facendo per solo per sport, a quel punto tanto vale darsi veramente all’ippica, facendo scommesse sulle vittorie di una gioco guidato da qualcun altro e non da noi.

Forse sarebbe lecito allargare l’orizzonte e prendere in considerazione che i gggiovani adulti si ritrovano in un mare di merda esistenziale. In pochi sanno cosa fare “da grandi”, dove andare, come guadagnare, come definirsi in società. Finché queste domande rimarranno tanto aperte e tanto grosse ritengo che patologizzare la cosa più naturale che abbiamo sia un errore poco umano. Come mettere i nostri sentimenti nel vetrino del microscopio e cercare di contare da quanti atomi sono composti.

Credo anche che in tempi come questi (come direbbe mio zio Michele alle panchine) finché manca una definizione di base di se stessi si corre il rischio di appoggiarci così tanto al povero amore che poi per forza che diventa malato. Se mi definisco in base a niente mi rimane solo quello. Insomma, altro che avanguardia, qui si torna indietro di tanti secoli, dove poco valeva chi fossi, l’importante era accoppiarsi in qualche modo per seguire la naturale evoluzione dei mammiferi. Solo che questo ritorno non ce lo possiamo mica concedere negli anni 2000, perché il mondo vuole che siamo anche tanto altro e quel tanto altro ci rimane difficile. Non lo so se mi sono spiegata, forse no perché le mani mi formicolano ancora e oggi ho aperto il megafono senza regolare il volume.

Ragazzi belli, se volete appoggiarvi a questi nuovi mostri lo potete fare, ma il rischio è quello di perdere di vista per sempre il vostro tentativo di definire non la malattia che vi attanaglia, ma l’amore stesso, che forse è semplicemente ineffabile, tuttavia irresistibile. Quindi se qualcuno vi ha affibbiato questo nome, cercate prima nelle altre aree della vostra vita, se siete allo sbando in tutti i sensi allora lasciate stare il disturbo ossessivo da relazione, perché l’unica ansia che avete è quella nei confronti di voi stessi e di tutto quello che di voi stessi non state riuscendo a fare.

La domanda non è se la vostra relazione sia bella abbastanza da continuare a vivere, ma se la vostra paura generale non è troppo grande da trasformarsi in ansia di vivere che mette in dubbio tutto quello ciò che vive. Ah, e non so come dirvelo, ma nessuno saprà mai se i vostri amori siano giusti veramente, io so solo che innamorarsi prevede lo stesso rischio di una mano di poker, prevede fede, e dubbi e domande e paure. Ma sopratutto prevede che voi partecipiate al sentimento, non che passiate la responsabilità al primo manuale di definizioni che trovate sull’ultima rivista di psicologia.

L’unica cosa che dovete veramente cacciare fuori sono le vostre palle, l’ansia riservatela per i veri mostri che la vita ci riserva. Se poi vi sentite comunque scossi dai segoni mentali, sappiate che durante l’università ho lavorato in un sacco di bar e ho una fantastica collezione di boccali da spaccare insieme, mano nella mano, contro il muro di un’ignoranza spaventata che ha l’ossessione di farsi scienza.

 

 

 

Quel messaggio che non devi proprio mandare

L’abbiamo fatto tutti e lo faremo ancora, però che palle. Non c’è forza che ci fermi dallo scrivere inutili messaggi alla persona che ci piace nei momenti meno opportuni. Cioè, ovviamente tutti sappiamo benissimo cosa si deve o non si deve fare, in teoria. In pratica invece pare sempre che qualche energia oscura ci prenda a padellate in testa, trasformandoci nella versione peggiore di noi stessi con un solo colpo di acciaio inox.

Passate un attimo in rassegna voi stessi e ditemi se non è vero che in almeno dieci occasioni vi è capitato di fare quella mossa da cretini di mandare il messaggino maledetto, nel cuore della notte, del giorno, della mattina fa lo stesso, in cui vi siete presi paura e, cercando rassicurazione, avete trovato un muro ancora più solido del padellone d’acciaio.

La voglia di spiegoni arriva così, alle spalle come un ladro, incontrollabile come la marea e si porta via il buon senso peggio del vento con le piume. Incontrollabili prendiamo i nostri dannatissimi telefonini e giù come pazzi in picchiata per il pendio dello sfacelo. Poi non so tra uomini se succede nello stesso identico modo, ma tra donzelle abbiamo un gusto super speciale per riunirci intorno ai tavoli cosparsi di sigarette, a leggerci a vicenda gli spiegoni del secolo che abbiamo inviato al povero stronzo di turno. E questo capita a colpi di “Ao senti che j’ho scritto, senti come l’ho sistemato ao”, a questo punto si crea un attimo di silenzio quasi solenne e lì può finalmente partire l’esposizione dell’arringa con la stessa verve con cui i bambini recitano la poesia ai parenti sotto Natale.

Per quell’attimo, solamente per quell’attimo, creiamo l’illusione di aver messo tutto quanto a posto con le nostre parole. Di aver dato finalmente un significato al mondo tutto quanto intero tramite l’elenco dettagliato dei difetti dell’altro. Come se dando a qualcuno dell’egoista malsano bastardo potessimo veramente sentirci meglio noi. No ragazzi, fatevelo dire, questa cosa pare figa ma non serve a un cazzo. Anzi sì, serve a perdere tempo, a mettere a dura prova le nostre coronarie e ci lascia addosso un rinculo di rabbia che non se ne va più.

E allora come si fa vi chiederete voi, giusto? Eh ma io mica lo so bene, però qualcosina l’ho capito, ovviamente a suon di monologhi di accusa in cui una parte di me si sentiva in gamba come Marco Antonio che fa le scarpe a Bruto, l’altra invece iniziava già a capire che stava sbagliando tutto. In confidenza vi racconto questa, quando avevo grosso modo 16 anni mi presi una cottarella estiva per uno che al secondo appuntamento mi diede buca. All’epoca non è che c’era tutto sto telefonismo in giro e della mia cotta avevo soltanto il numero fisso. Insomma questo non si presenta, io dopo un’ora salgo a casa infuriatissima e mi attacco al telefono come una cozza si attacca allo scoglio, a telefonare like crazy a costui che non mi rispondeva nemmeno, ma io volevo farlo nerissimo e quindi daje con il tastino “ripeti” fino ad arrivare forse a 67 tentativi e niente. A un certo punto mia madre entrò in camera e fece una cosa splendida, foderò il telefono con mille strati di pellicola trasparente e mi disse:

” Così ti fai passare la smania di risposta, bella de mamma”. Crudele? Forse sì ma nessuno ha mai detto che l’educazione sia fatta soltanto di carezze.

Ora, nel momento in cui vi viene pure a voi la smania di risposta, lasciate stare. Fatelo perché altrimenti sarà inevitabile salire sulla navicella del paradosso, in cui più vuoi una cosa e meno ci riesci. Pensi che il tuo batticuore non si stia comportando bene, non ti voglia abbastanza bene, se la faccia con altri più splendidi di te? Bene, cioè malissimo ok, però prima di tutto accettiamo il nostro turbamento e diamogli un po’ di spazio. Nella pratica questo vuol dire varie cose, tanto per cominciare non state lì a fissare il telefono perché anche se non ne siete convinti, guardarlo intensamente non farà comparire messaggi d’amore all’improvviso. Alzatevi proprio dal posto in cui state seduti e fatevi il giro del palazzo. Prendetevi due birre, spegnete il telefono per qualche ora, fatevi una doccia. Cantate tutto il vostro album preferito, fate una corsa sul posto o sempre intorno al palazzo fino a che non vi è scesa un pochettino la botta della smania. Solo in quel momento sarete lucidi per rispondere qualcosa di sensato invece della solita arringona da battaglia.

Una frase tagliente e ben assestata vale più di qualunque modo vi sembri adatto a spiegare il vostro turbamento. E per essere sintetici sulle cose bisogna prima pensarci a lungo, quindi via quel telefono e fate entrare un po’ di silenzio nella vostra testa smaniosetta. Ma lo sapete perché vi conviene prendervi del tempo? Non perché i vostri sentimenti non valgano un’arringa o perché magari non abbiate a che fare davvero con una persona che non vi vuole, semplicemente perché quella dignità che possono acquistare le parole non merita di essere sprecata per un momento di profonda insicurezza e di paura.

Dalle situazioni si può uscire in tanti modi, belli miei, e se deve succedere che dall’altra parte non si ricorderanno di noi, beh, sti cazzi, poi ce le dimenticheremo pure noi. Però la dignità con cui usciamo dalle situazioni invece si ricorda sempre e vi posso assicurare che il dolore ricevuto è niente rispetto a quello che possiamo farci da soli. Perché dagli stronzi si può pure scappare, ma se lo stronzo abita dentro di noi allora come potremmo correre via veloce? Davvero, non è tanto figo fare il bagno di merda alle persone, nemmeno quando se lo meritano. Non è tanto figo mandare messaggi vocali che durano come un film di Scorsese, non è tanto figo offendere persone che alla fine nemmeno conosciamo veramente e non è tanto figo fare la figura dei disperati bisognosi d’amore quando, detto solo tra noi, quello che facciamo in certi momenti è solamente uno stupido capriccio della nostra vanità.

Se non ti vuole lo sai che cosa gli puoi dire? Una cosa che dicono gli argentini prendendo spunto da quella cosa molto romantica che è il tango: “Io e te abbiamo già ballato abbastanza” e così, leggeri e taglienti potete tornare sulla giostra ad aspettare il prossimo giro di danze. Oppure facciamo un’altra cosa, ditemi se vi può piacere, facciamo che ognuno di noi si tiene in saccoccia il messaggio maledetto che non deve mai mandare fino alla mattina successiva. Se lo stato d’animo è esattamente uguale a quello della sera prima, allora chi sono io per fermarvi dalla figura di merda. Ma se fosse un po’ diverso vi propongo di farne una bella raccolta, dal nome “Gli spiegoni che non ho mai voluto spiegare” o una cosa del genere. Poi ci ritroviamo tutti intorno a un tavolo cosparso di sigarette e ce li leggiamo ridendo. 

Perché il bisogno di essere amati è una cosa di cui sorridere e non vi dovete vergognare se ogni tanto l’abisso vi guarda dentro e chiede di essere accontentato. In quei momenti di smania ci mettiamo tutte le nostre mancanze, tutta la nostra tenerezza. Quindi non copriamolo con la rabbia solo perché ci sembra che non funzioni, copriremmo di rabbia la cosa più preziosa che abbiamo dentro.

E poi, se invece fosse proprio amore, provate a pensare se Romeo avesse mandato un letterone alla povera Giulietta dicendole “Ao amò, che c’hai? Te sento fredda”, che storia di merda sarebbe diventata? Quei due si amavano tantissimo proprio perché si sapevano aspettare, desiderare e mancare. Tenetevi stretti il vostro silenzio come la pellicola stretta intorno al mio telefono adolescente, perché il silenzio è l’unico posto al mondo dove puoi pensarci dentro.

I buoni propositi sono sempre una cattiva idea

Nell’ultima domenica del primo mese dell’anno, circondata da tazze di Nescafè e sigarette lasciate a metà, mi siedo al solito posto e vi racconto quello che volevo dirvi da un sacco di giorni: i vostri buoni propositi mi stanno tremendamente sul cazzo. I miei personali forse ancora di più. Sono su questa terra da 33 anni e non ho ancora mai visto nessuno portare a termine tutte quelle cagate che si scrivono i primi giorni dell’anno nel diario mentale fatto a forma di cuore che ci portiamo dentro. In quello dei miei 16 anni invece ho trovato una lista che faceva più o meno così: Caro anno che stai per arrivare ti volevo chiedere giusto due o tre favori per i prossimi trecento e rotti giorni di cui sei fatto. Caro anno che stai per arrivare, per favore fammi trovare un fidanzato bellissimo e bravo, fammi diventare a me bellissima e ancora più brava, fai che i miei genitori stiano bene sempre e fammi avere un milione di amici. Ovviamente in quell’anno non è successa manco mezza cosa di quelle che avevo chiesto e ci ho messo tutta l’altra metà della vita che ho a capire come mai queste intenzioni non funzionano mai.

Ditemi voi se mi sto sbagliando o sto delirando o forse sto solamente sognando. È che lì fuori è pieno ma pieno pieno tipo la metro B prima che arrivi a Termini la mattina alle 8, di gente che da domani in poi vuole: mangiare sempre sano, sempre pure a Natale, portarsi il maledettissimo pranzo da casa invece di mangiare tramezzini al bar nella pausa pranzo. Io vi vedo ragazzi, non vi nascondete che tanto non ci riuscite. Vi vedo che cercate di organizzarvi le verdurine del cazzo da preparare la sera prima o meglio ancora la domenica per poi surgelare tutto e avercelo pronto in piccoli pacchettini perfettamente simmetrici. Vedo gente che il lunedì a colazione si sveglia vegana manco fosse un’apparizione della madonna durante il sonno e il lunedì a cena tutta pizza e mortazza. Vedo gente che vuole smettere con le relazioni tossiche, con i narcisisti, con l’alcol, le sigarette, le canne, anche in questo caso cercando contorni più da santo che da essere umano. Donne che quest’anno la dieta come si deve ma per pensarla a fondo, affondano macine nel barattolo della nutella. E poi scattano gli abbonamenti annuali in palestra del pago tutto prima così sono obbligata ad andarci e invece manco per niente che il 3 Febbraio avete già buttato il pantalone di lycra insieme alle verdurine del cazzo. Vi vedo che vi volete impegnare a essere senza macchia e senza peccato, così perfetti che pare vi abbiano fatto una lobotomia. Rigidi, imbalsamati e ottusi di fronte alla grande, grandissima, sublime imprevedibilità contenuta nei giorni.

Poi ci sono quelli che invece spingono forte sul senso delle possibilità e del positivismo, quelli che va sempre tutto bene, quelli che l’importante è che stai nel tuo tempo perché non è mai veramente tardi e ogni giorno può essere giusto per cominciare qualcosa. Insomma, quelli che sono rimasti sotto all’invocazione di Steve Jobs buonanima e che si sentono così hunry e così foolish in ogni momento perfino al cesso e in fila alle poste. Ma basta con questa cosa che la vita va mangiata in due o tre bocconi, quando mai? Dico non lo sentite come pesa il mondo certe volte? Non la vedete e sentite questa malinconia, venite venite andiamo via, come canta Guccini. Anche il vostro proposito di non avere propositi ma pensare sempre al lato buono di tutto quanto, mi sta tremendamente sul cazzo. E non fa eccezione il mio personale ottimismo buttato lì per fare sostanza tipo la panna sulla carbonara.

Vorrei che vivessimo tutti con disordine quasi ovunque, spettinati e liberi da tutte queste cose stupide che ci ingabbiano l’anima. Perché non sarò io e non sarai nemmeno tu quello che porterà il logos perfetto lì dove c’è il caos, né tua zia né la mia né tuo cugino quello che vive a Londra. Non sarà mai nessuno di noi il profeta che farà del proprio corpo un tempio, della propria casa una pagina da rivista d’arredamento, del proprio amore un campo di fiori invece di un campo minato. Nessuno. Mai.

Vorrei che facessimo tutti soltanto cattivi propositi e intanto vi dico i miei: Caro anno che sei già cominciato, per i mesi che verranno io non voglio trovare nessuno che mi salvi da niente, non voglio essere bellissima e tanto brava, non voglio imparare a truccarmi come si deve perché il mondo si è abituato a vedermi così e ogni tanto a volermi anche bene così, non voglio aggiornare questo posto prezioso per me in cui scrivo le mie cosette ogni giovedì come mi ero promessa, non imparerò a farmi le trecce francesi come quelle di Instagram e mi metterò il mollettone chissenefrega , non mi berrò la spremuta tutte le mattine perché io la mattina non so manco come mi chiamo, non chiederò scusa a tutti quelli che devo, non sarò sempre buona con i miei genitori, i miei amici e il mio cane, non ordinerò le cose nell’armadio secondo sfumature cromatiche che nemmeno conosco, ma sopratutto non vivrò mai ogni giorno come se fosse l’ultimo. Perché mettiamo che oggi fosse veramente il mio ultimo giorno, vorrei essere ricordata per la persona disordinata che sono, circondata da tazze mezze finite e sigarette mezze spente.

Vorrei che facessimo tutti soltanto propositi pazzi perché d’accordo che la vita fa un po’ cagare, ma alla fine è pure bellissima. E come dice quel signore dell’oroscopo che ci piace a tutti, Apocalypse is now, so let’s dance. Quindi se volete proprio fare una lista di regole che romperete continuamente allora cerchiamo di sceglierle bene, come se fossimo liberi dalle catene strette del dover essere per forza qualcuno che non ci somiglia per niente. Caro anno che mi cammini a fianco, quest’anno sarebbe carino se riuscissi a crescere una piantina con i fiori invece dei soliti cactus, sarebbe carino se decidessi di fare una parete di un bel colore e poi cambiassi idea. Sarebbe carino se fossi chi sono sempre, continuando a sbagliare a casaccio ma con tanto gusto e tanta incoscienza. Perché ragazzi, tutti siamo quello che siamo e anche un po’ quello che potremmo essere, ma sopratutto quello che siamo. Non ci dobbiamo amare senza condizioni ma nemmeno torturare senza cognizione e allora basta con questi buoni propositi che in realtà non sono buoni per niente, sono solo buonisti. Schemi rubati all’idea di felicità più in voga del momento, etichette strappate e ricucite con la spillatrice che ci fanno sembrare soltanto più goffi e fallimentari.

Cos’è la vita a parte quella mezza merda e mezza meraviglia? Proprio quella cosa che ti capita mentre sei tutto intento a fare propositi di quello che dovrebbe essere. Per cui siate come vi pare, l’importante è cercare di essere. E dite a voi stessi che in un giorno qualunque vi impegnerete a fare una carezza a un cane randagio, un sorriso al casellante in autostrada, un pensiero a un vostro amico lontano, una piccola parola in più alla vostra mamma che è sempre preziosa. Che non ballerete il tip tap sul cuore di nessuno, che non ruberete a meno che non sia necessario farlo, che non offenderete a meno che non sia necessario farlo. In un giorno qualunque da qui al prossimo anno farete una torta di mele in un pomeriggio vuoto, vedrete un film che la gente ritiene palloso, abbraccerete di più, farete un piccolo viaggio in qualche parte vicina che avete sempre ignorato, leggerete un libro mentre fuori piove, curerete di più il vostro basilico, mangerete le vostre verdurine del cazzo ok, ma come contorno a qualcosa di buono sul serio, vi guarderete un momento allo specchio, magari solo di sfuggita e farete un bell’occhiolino a quella bella faccetta che vedete lì dentro e le sorriderete e la ringrazierete di starvi sempre accanto in tutti i momenti. Non amatevi mai per partito preso ma dio mio non diventate ostaggi di voi stessi, perché tutto quello che siete e sarete è bellissimo perché è vostro e perché quei centimetri di pelle, occhi e sorriso che avete è proprio tutto ma tutto quello che abbiamo, quindi lasciatevi perdere e lasciatevi liberi di perdere, che fallire i piani è un gesto di umiltà e non di stupidità.

Adesso vi mando un abbraccio, qui dal mio solito posto in mezzo alle mie cose lasciate a metà come queste parole che vorrei non finissero mai, invece siccome oggi è domenica e domani di nuovo lunedì ho una lista di preghiere da scrivere che domani infrangerò, come le onde del mare infinito si rompono sugli scogli senza farsi male.