Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

7 lavori orrendi che mi è capitato di fare

Non scriverò di alcuni lavori di merda che ho fatto per lamentarmi di quanto sia stato difficile fare la psicoblablablabla…no. È stato difficile ma magari ve lo racconterò un’altra volta.

Stasera mi va solamente di fare un memorandum di umiltà a me stessa e a chiunque si senta arrivato oppure snobbi senza nozioni di causa lo sporcarsi, più volte, le mani.

Ogni riferimento a cose o persone non è puramente casuale ma ovviamente non c’è niente di personale. Ho cercato di imparare da tutto quello che mi è successo e spero di non smettere mai, però rimane il fatto che in alcuni momenti durante quei momenti di merda, ho sognato intensamente di imbarcarmi su un cargo battente bandiera qualsiasi e dire addio a tutti quanti per sempre e per un giorno in più. Però, e il però è grandissimo, di ognuno di quei momenti ringrazio moltissimo tutti quelli che c’erano perché alla fine è la gente che hai intorno che ti salva le giornate, anche nel lavoro peggiore di questo mondo così tanto infame.

1- Prima di compiere l’età legale dissi di sì a distribuire copie di un giornale sportivo che visse pochissimo. Ogni mattina alle 5:30 uscivo di casa e alla stazione metro Piramide un tipo che non mi ha mai salutata mi lanciava da un furgone in corsa un pacco gigante tipo cadavere in un film di mafiosi. Le due ore successive erano tutta una lotta con due zingarelle e qualche signore anziano che cercava di rubarmi le copie e poi rivendersele o portarsele a casa per farci chissà che cosa. Indossavo un gilet giallo fluo così, giusto per essere sicura che mi si potesse notare anche dalla Tiburtina. Poi andavo a scuola facendo finta di niente, con le mani tinte di nero e in testa tutta la classifica fino alla serie C.

2- A 18 anni comincio a lavorare nel peggior bar di Caracas-Testaccio e per peggiore intendo che rimaneva aperto fino alle 6 di mattina e c’erano almeno 4 o 5 turni di vomitate generali nei bagni che a turno bisognava ripulire. La prima volta tenevo i mignoli alzati, dopo 4 anni lanciavo lo scottex da due metri di distanza e ricoprivo tutto sponda per sponda come un campione di biliardo e senza sporcarmi nemmeno un dito. Verso le 11 arrivavano gli americani che si erano bevuti pure l’acqua della Fontana di Trevi, all’una e mezza ballavano tutti dovunque compreso il bancone, alle 3 partivano le prime risse. Una volta che si era fatta mattina e io non tornavo venne a prendermi mia madre e mi trascinò a casa per un orecchio dopo aver fatto il sermone pure al meccanico a fianco che ormai aveva riaperto.

3- Al terzo anno di psicologia mi ritrovo vestita come un dottore nel più grande e massiccio ospedale della capitale. Non posso dire che fosse un lavoro perché non mi pagavano ma alzarsi tutte le mattine e stare 8 ore nello stesso posto a fare cose per cui di solito ti danno due spicci, è comunque un lavoro. Reparto di psichiatria di cui ricordo con affetto ogni persona che allora mi attaccò la pippa su quanti omini verdi vedesse o qualunque altra cosa perché non lo sapevano ma io li ascoltavo sempre con attenzione e senza giudicare. Cosa che invece mi toccò fare con la capo sala, donna cattiva come la sete nel deserto che trattava malissimo persino il dispensatore dell’acqua. Io passavo le giornate a cercare di ritrovare la strada tra i corridoi lunghissimi e a chiacchierare con un simpatico vecchietto infermiere che ci regalava i panini avanzati a patto che dessimo una rapida occhiata ai calcoli renali che teneva in un carrello con cui passeggiava. In 12 mesi non sono mai riuscita a prendere l’uscita giusta ma sbagliavo sempre ascensore prendendo quello per il trasporto salme, cercando di scomparire schiacciata contro le pareti per la vergogna. Quando hai 19 anni certe cose sono troppo grandi, come quel maledetto camice che mi dovevo mettere senza averne la stoffa.

4- Finiti i cinque anni di università mi ritrovo in una scuola superiore ad aiutare i ragazzi con problemi. Quelli che una volta si chiamavano duri di comprendonio, oggi di tutto e di più ma di solito handicappati. Non prendetemi per buonista se vi dico che loro erano anche e spesso un gioia e si cercava di dare al massimo anche quando sembrava esserci niente. Ma la scuola in sé era completamente fuori di testa. Ci tenevano tutti in una stanzetta in fondo a un corridoio, chiamata appunto Aula H, ma vi pare cosa da fare? E lì dentro sembrava un circo, nessuno sapeva che fare e intanto volavano pennarelli, fogli, quaderni, scarpe, orecchini, bestemmie. Poi c’era il momento del bagno e a quel punto scomparivano tutti o si litigava talmente tanto su chi dovesse portarci i ragazzi, che ogni tanto i poverelli si pisciavano sotto e fine dei giochi. Se non ce l’ho fatta non è perché sia una vigliacca ma perché per certe cose non serve una vocazione, ma un sistema che ti aiuti a farlo senza rischiare di impazzire non per i disturbi ma per il contesto.

5- Un’estate ho lavorato in un call center, ma non in uno qualunque, eh no. Niente coretti motivazionali a inizio giornata e medaglie al valore a fine mese. Un sottoscala caldissimo e senza finestre tranne una piccoletta in fondo in fondo. Una caposquadra che passava il tempo alle macchinette del corridoio a fare controlli qualità sulle merendine in ricambio e un colloquio fatto da un tipo pieno di forfora che non mi aveva neppure guardato in faccia. Al netto si prendevano 0 euro l’ora e il compito era rompere i coglioni a povera gente che viveva in Spagna per chiedere loro quanto contenti fossero delle rate della loro macchina, tramite un semplice questionario che durava 40 minuti. Io non so se vi è mai venuto in mente, ma tenere la gente a fare i controlli qualità, pagandoli zero e pure senz’aria non dovrebbe darvi il diritto di pubblicare certi dati come se fossero scientifici che sono fatti alla cazzo di cane. Nel migliore dei casi.

6- Ho passato un buon annetto e mezzo a fare la cameriera in un ristorante a gestione familiare. Cioè mamma, papà, figlio capricciosetto di 13 anni e amante della mamma che frequentava tutte le sere. Signori, mi hanno davvero trattata come una figlia e ho mangiato mille cose buonissime. Però il contesto familiare voleva dire che ogni giorno stavo sotto il tiro incrociato di uno che odiava l’altra, l’altra che si lamentava di uno, il figlio che urlava cose a caso, il padre che gli lanciava gli zoccoli dalla cucina, l’amante che si piazzava al bancone a fare gli occhioni alla signora che nel frattempo mi tirava il braccio. E lì fuori 70 coperti che aspettavano soltanto me, tranne il sabato che c’era anche un’altra ragazza che aveva impicci con non so chi e beveva mentre lavorava come nemmeno il più incallito dei clienti al tavolo, lasciando la sala piena di cose sparse per terra e dovunque. Tutto questo succedeva nel mio completo e assoluto silenzio generale perché i problemi erano sempre tutti già prenotati peggio dei tavoli.

7- Un inverno decido con un’amica di provare a vendere dei vestiti con un’Ape Car, ignara del fatto che la proprietaria del mezzo e degli abiti avessi i permessi diciamo a metà. Quindi la mattina ci incontravamo in un punto lontanissimo di questa città e con grande e immensa fatica cercavamo di far uscire l’apetta demmerda dal suo garage. Ecco, io non so se qualcuno di voi l’ha mai guidata ma non è una macchinina a scontro, è più come un dannato traghetto. Per ingranare la retro dovevamo essere in due e comunque pregare prima e pure un po’ dopo. Poi facevamo i chilometri con la gente che ci mandava madonne di tutti i colori perché il faceva fumo come un incendio ed era tutto uno smontare e rimontare maglioni e magliette o perché pioveva o perché c’era la municipale. La notte mi sognavo i clacson e le marce e poi, di nuovo, quel cargo battente una bandiera qualunque ma senza la retro.

Non mi pento di niente ma non rifarei tutto e so benissimo che è pieno di gente che è costretta ogni giorno a fare un lavoro orrendo per forza. Vi dico tenetevi strette le persone migliori che avete intorno perché quando tutto il resto fa schifo voi e loro potrete sempre non farlo. E ridere come a scuola nei banchi quando non c’era proprio un cazzo da ridere.

La riflessione è più lunga, larga e dolorosa. Non sono capace a dire tutto quello che penso ma il lavoro di merda può farci diventare di merda anche a noi e questo non dovrebbe succedere mai. Sarà un pensiero ingenuo, senz’altro ma non mi voglio arrendere e anche a costo di perdere molto cercate sempre di dire no quando le cose non vanno bene per niente.

Qualche hanno fa lessi un articolo su un manager andato in disgrazia che si era ammazzato. Aveva moglie e figli e migliaia e migliaia di debiti. Nella stanza dove lo trovarono c’era un biglietto e il biglietto diceva: “Quando ero piccolo sognavo di cambiare il mondo, ora vorrei soltanto uscire da questa stanza con dignità”.

Anche se suona vuoto e forse disperato, che questo possa non succedere mai a nessuno, mai più.

 

Olimpia Parboni Arquati

La posta di Olimpia-Ho fumato troppe sigarette piangendo nel buio

Cara Olimpia,

Io sono una di quelle che ha avuto una vita generosa e non si è mai trovata ad affrontare disgrazie degne di un post traumatico. Però ho voglia di ammorbarti, perché anche se ci siamo parlate per poco qualcosa di te mi ha messa a mio agio. 

La mia storia più importante l’ho avuta a 18 anni ed è durata 4 anni. È stata una storia bellissima, la prima in cui mi sono sentita veramente amata e a cui ho dato non tutta me stessa… Di più. Quando è finita è stato un trauma non solo per il distacco – che come tutti quelli che hanno amato e perso sanno, è un po’ come un lutto – ma perché ho dovuto guardarmi allo specchio e ammettere a me stessa che il modo in cui vedevo le cose, lui, me e il nostro rapporto, era molto distaccato dalla realtà. Ah, l’amore! Nulla soddisfa di più l’ego di chi è libero di amare l’oggetto del suo amore…

Voglio raccontarti un episodio che per me è stato significativo, che ha cambiato il corso della mia storia con lui e che può ben riassumere il tipo di rapporto che avevamo davvero, quello che da fuori non vedeva nessuno

Avevo preso i biglietti per un viaggio, con un anno di anticipo usando tutti i miei risparmi, e organizzato una caccia al tesoro per tutta Roma per farglieli trovare per il suo compleanno. La sera ci ubriachiamo, ovviamente. Io ho sempre avuto il senso della misura, lui no. Per riportarlo a casa – totale di 20 minuti a piedi e 4 fermate di metro – ci metto circa 3 ore. Arriviamo in camera, lui sta fuori, ma diceva quanto mi amava, quanto era arrapato, ed io lo accontento non so neanche come o perché. Del dopo ho solo un flash. Gli sto facendo un pompino, ma c’è qualcosa che non va, inizio a piangere, ma non mi fermo. Le sue mani mi tenevano i capelli e spingevano con forza la mia testa. Cosi, fino alla fine, con me che piango. Finisce. Io mi tiro su, tutta sporca e singhiozzante, mi pulisco la faccia e mi giro verso di lui, addormentato in una frazione di secondo.

Mi siedo li sul cornicione della finestra, fumo e piango, per ore, non riuscendo a realizzare cosa fosse successo. Non so quando, lui si è svegliato, mi ha chiesto perché piangevo, e non so cosa gli ho detto. Ricordo solo che dopo lo abbracciavo mortificata e gli dicevo ”Non ti preoccupare, non fa niente”.

2015, sono in camera con il mio nuovo ragazzo, che è anche un mio collega, che è anche un santo. Ho iniziato a frequentarlo poco dopo aver chiuso la storia con il mio ex – e qui serve un’altra e-mail per spiegarti cosa è accaduto. Be’, diciamo che era il tipo di persona che quando mi ha trovato, depressa, schifosa e sul fondo del fondo del fondo, non si è tirato indietro, non mi ha voltato le spalle dicendo che ero una stronza, matta, o un’ipersensibile. Anzi, mi ha detto che mi avrebbe aspettato. Ha fatto i turni con quei due amici che mi erano rimasti accanto per aiutarmi a pulire, a fare da mangiare, portare giù i cani, studiare. Lui c’è stato, anzi lui è quello che mi ha insegnato cosa vuol dire esserci, davvero, per una persona.

Tutta la merda cominciava ad avere senso, anche se mi ci sono voluti 6 mesi di psicoterapia solo per rispolverarla un po’ e capire che effettivamente c’era. Tutto aveva senso: il mio non riuscire più a bere e i miei problemi quando il mio ex e i suoi (ma allora miei) amici bevevano, i miei problemi nell’intimità, la mia necessità di partire, mollare tutto a costo di soffrire la solitudine, perché la solitudine era meglio di quello che avevo, del mio sentirmi sempre strana e fuori luogo perché non bevo, perché non amo i luoghi affollati, perché non faccio sesso come un film porno e perché non squirto per dimostrare a quello che era il mio ragazzo quanto è bravo a farmi godere. Insomma, una disadattata che doveva guarire, che doveva cambiare.

Invece fanculo, io ero questo. Io ero quella che non ti avrebbe mai detto di no per non vedere un’espressione triste sul tuo viso, quella che preferiva farsi fare del male, per poi sorriderti e dirti di non preoccuparti, pur di non veder andare via qualcuno che amava e che per la prima volta mi aveva fatto sentire che valevo qualcosa. Io ero questo al punto da dimenticarmene per quasi 4 anni, tanto non volevo vedere la realtà. Tanto ero insicura da lasciare che la mia mente si auto proteggesse, rimuovendo le cose, senza neanche degnarsi di avvertirmi.

Questo è solo un aneddoto, che lascia il tempo che trova e che a ripensarci adesso non è poi così sconvolgente come quando lo ho vissuto. Eppure è indicativo, credo, di un modo di essere. Che era il mio modo di essere, ma che so appartenere a tante altre persone. 

Per cambiare, ho prima di tutto dovuto capire che fosse giusto cambiare, che nonostante il dolore che si prova a lasciar indietro una parte di sé… la crescita implica proprio questo: cambiare. Anche se poi la gente se ne va perché un improvviso amor proprio da una così viene di rado capito, anzi, poi diventi pure na stronza egoista che osa dire quello che pensa e onorare i suoi sentimenti, figuriamoci chiedere che vengano rispettati.

Ora sono una persona nuova, o meglio, sono me stessa sempre. E devo fare un elogio alla psicoterapia per questo. Perché se cambi tu, cambia il tuo ambiente e tutto ciò che ti circonda.

Ora sono serena e ho capito il valore di quella frase così banale, eppure così vera: prima di tutti, ama te stesso.

F.

 

Cara F.

Benvenuta in quella parte di mondo abitata da persone che amano gli altri come dovrebbero amare se stessi o come di solito le madri amano i loro figli. Senza chiedere risposte, aspettando, perdonando, asciugandosi le lacrime anche quando vorrebbero piangere un Mississippi di dolore.

Quando mi capita di sentire storie che vanno al di là del sopportabile mi ricordo sempre i due stessi aneddoti, che forse anche loro lasciano il tempo che trovano. Il primo è una frase di una vecchia amica, con la quale mi lagnavo di essere figlia unica e dovermi occupare di mille sbattimenti e preoccupazioni senza poter dividere la responsabilità con nessuno. Lei mi risponde “Olimpia, se sei figlia unica vuole dire che è successo solo perché sei in grado di reggere tutto da sola” e mi mette il cuore in pace nonostante la tautologia. Il secondo riguarda una professoressa che durante lo scambio culturale con Parigi, mandò tutti in famiglie che abitavano in centro. A me invece mi spedì in aperta campagna, a due ore e mezzo di treno dalla città, in the middle of the mucche e dei salici piangenti. Dopo un paio di anni, quando glielo chiesi, mi disse che l’aveva fatto perché ero talmente abituata a viaggiare che di sicuro sarei stata l’unica a tollerare quella fatica. Sta stronza.

Volevo dirti una cosa ma non voglio che suoni come se stessimo in qualche terribile talk show dove tu hai il viso oscurato e io un’improbabile piega cotonata. Però grazie per averci avuto tanto coraggio a raccontare quello che ti è successo e come è successo. Su questo non ti dirò niente perché penso che non serva nemmeno. Non ci sarebbe diapositiva più chiara per dire come ci si sente quando si abbassa la testa tutte le volte che non si dovrebbe.

Secondo me la cosa che fa più male tra tutte è quella che nessuno ci riconosca lo sforzo. Di fare quello che non vogliamo, di non dire quello che pensiamo, di trascinarci i pesi ubriachi per ore e per anni anche se pesiamo meno della metà. Dico proprio nessuno che ci dica oh comunque brava, apprezzo il tentativo, l’importante è partecipare. Niente, nemmeno un portachiavi ricordo per la presenza.

Nessuno ci ringrazia e per nessuno intendo ovviamente nemmeno noi. Noi cominciamo a starci sul cazzo da soli per permetterci certe cose e magari a pensare che siamo brutte persone e che non ci meritiamo niente di più di quello che abbiamo. Quindi finisce che chiediamo anche scusa, a noi stessi, agli altri, a mamma e papà per non essere coraggiosi e per non alzare la testa. E forse è lì che si inceppano i circuiti e andiamo avanti per anni senza nemmeno capire chi sia il colpevole e chi la vittima. Ma rimaniamo colpevoli di non capire che se non ce ne accorgiamo da soli di essere vittime non è detto che arriverà mai qualcun altro a salvarci. C’è qualcosa dentro di me che mi dice che la vita sarà più generosa con te finché glielo permetterai e che non ti capiti mai più di metterti tu da sola in situazioni invece più che degne in un post traumatichino eh.

Ci sono modi eroici per morire e modi molto più eroici per vivere e per entrambe le cose bisogna trovare prima un significato, uno qualunque. Vanno bene tutti tranne quello del sacrificio. Non ce l’ha fatta quel signore barbuto in mutandoni di cui parlano tutti e non vedo perché dovrebbe essere compito nostro. Saremo pure cresciuti in una cultura in cui questa cosa ad un certo punto viene apprezzata ma alcune spinte evolutive dipendono anche da tutti i nostri piccoli gesti. Non può essere la vittoria magari ultraterrena, di chi ha sofferto di più. Bisognerebbe dedicarsi alla felicità con un po’ meno vergogna.

Quello che ti è capitato dopo e chi mi auguro ti capiti per tutto il resto della tua vita non è nient’altro che quello che tu hai fatto prima per qualcun altro e quindi forse è soltanto la cosa più giusta che poteva succederti. Ecco, qui però stai attenta, esserci per l’altro è la prima cosa e non deve essere l’eccezione o il miracolo. Ci si vuole bene quindi ci si protegge, tutto il resto è una guerra e di queste ne è già pieno tutto il resto del mondo.

A proposito di talk shows del cavolo dove si parlava di uomini che amano troppo e quindi te menano, non me la sento di dire quello che penso ma sono sicura che esistano uomini ed esistano donne che da soli non si amano proprio. Forse nemmeno si conoscono o non si fidano di loro se stessi, non lo so. Ma se non ci vogliamo bene da soli è più facile che ci convincano a rimanere in una relazione mediocre o comunque lontana dai nostri sogni, perché a un certo punto smettiamo proprio di farli.

Quando la psicoterapia funziona è soltanto perché ci siamo rotti le palle che le cose vadano in un certo modo e sì, come hai detto benissimo tu, siamo disposti a cambiare e quindi a ricominciare a conoscerci dall’inizio ma anche a correre il rischio di essere più felici di come eravamo. Adesso che ti sei diventata più amica di come eri prima ricordati sempre che devi viaggiare leggera e piangere solo davanti a chi ti consola e chi ti riporterebbe a casa anche dopo esserti scolata l’acqua di tutti i tergicristalli di Roma senza nessuna paura.

E non portare mai sulle tue spalle più di quello che riesci a sopportare perché non sei su questo mondo per caricartelo addosso ma casomai per ballarci dentro.

Olimpia

 

Roma bastarda

Ti odio da troppo tempo e quindi non riesco a lasciarti, maledetta Grande Pesca. Tu con il tuo arancione dappertutto, tu che ti infuochi a ogni tramonto, tu che quando piove diventi Atlantide anche se dopo duemila anni potresti anche imparare a reagire quando il cielo lacrima, maledetta tu che mi togli un sacco di cose e poi qualcuna me la dai pure, così io non me ne vado mai ma ci penso sempre.

Itaca piena di buche, piena di macchine, piena di stronzi.

Mi hanno portato via da te quando non sapevo ancora parlare e sono 32 anni che mi manchi anche quando stiamo vicine. Più ti vedo, meno ci capiamo. Meno ci capiamo, più non ti sopporto.

Roma è tanti paesi uno dentro l’altro, Roma non è la capitale dell’impero, Roma non è nemmeno una città, è una giostra che gira al rumore dei clacson e degli insulti.

In questa città non siamo tutti uguali, qui dovunque vai ti guardano ancora le scarpe. Roma cafona, Roma parvenue, Roma vecchia ma adolescente. Roma che ancora si rifugia nel nome dei Parioli ma anche Roma che cerca di riscattare il nome delle borgate. Qui si imita il futuro rimanendo incastrati nel passato. Roma sei solo un centurione con la scopa in testa al posto delle piume, Roma te la tiri senza motivo, Roma coatta de paese vestita a festa fuori dalle chiese.

Qui capita pure che sulle strisce ti facciano passare, ma te lo devi merita’. Capita pure che con te siano gentili, ma te lo devi suda’. Ogni volta che esco di casa ho paura di litigare con qualcuno o che qualcuno litighi con me. Quando pago e mi chiedono gli spicci, mi guardano male se non ce li ho. Eh no, infatti, ce li ho ma mi piace camminare sotto un cielo di insulti, con le tasche piene di monete. Quando ho aperto la partita iva e ho chiesto “Tutto qui?” mi hanno risposto “E non lo so, che vole pure un caffè?“. Quando sono entrata zoppicando al pronto soccorso mi hanno detto “Ao ma come cazzo cammini?“.

Roma si discute e non si ama, facciamola finita con queste glorie antiche e immobili. Città sporca, città mortificante, città mafiosa, città che mi ha insegnato tutte le parolacce che conosco e me le fa sgranare come le palle del rosario.

Roma ti prego, proteggi questi figli tuoi che ti riempiono di cicche spente e di rancori. Roma che farai la stupida anche stasera e non mi darai mai una mano a famme dì de sì.

Pesca maledetta ma tu te lo chiedi mai che cos’è la gentilezza e cos’è la felicità? Tu ti rendi conto che qui la gente si spara per i parcheggi? Ma non hai guerre migliori da metterci tra i piedi? Ma tu, tu che vedi starci male, ma perché non ci lasci andare via?

Saranno i tuoi pini che ti portano fino al mare e l’idea del mare che alla fine ti accompagna. Saranno quei vecchi che fortunatamente ancora incontri, seduti sulle panchine, a borbottare in un dialetto che si è praticamente perso. Tutto quel verde delle ville e quello del tuo fiume pieno di ponti pieno di statue.

Deve essere l’odore delle pizzette rosse dei forni, l’odore dell’asfalto a forma di groviera quando piove e quando arriva Luglio. Saranno tutte quelle canzoni che in mezzo ci mettono il tuo nome e noi che le cantiamo, come una serenata a una che alla fine non te la darà mai ma ti ci fa credere perché è bella. Sporca ma bella, disordinata ma bella, pericolosa ma bella, bella, bella li mortacci tua.

Se io non me ne vado è solo perché quando l’estate torna voglio esserci sempre, a trovare parcheggi impossibili sotto il sole di agosto e a cercare sorrisi impossibili sotto il grigio della tangenziale. Non me ne vado perché per troppo tempo mi sono chiesta come saremmo state insieme e anche se non ci ameremo mai, io lo so che ci vogliamo bene come si può volere a un vecchio amico dell’asilo che non sopporti ma senti il dovere di rispettarlo perché ti riporta a come eri e a come volevi essere.

Io ti odio perché mi stai facendo diventare uguale a te, cattiva ma mai fino in fondo, aggressiva ma mai fino in fondo e bella solo sotto la luce dei tramonti.

E forse in qualche modo io ti amo anche perché amore è cercarsi senza trovarsi mai e volersi senza capirsi mai. Mai fino in fondo.

Continuerò a inciampare sui marciapiedi e a far sbranare le gomme dalle tue strade. A prendermi gli insulti che non mi merito e farmi squadrare i vestiti dai tuoi figli stronzi e cafoni come ho imparato a essere anche io, nelle ore di punta e nelle ore morte. Raccoglierò i fazzoletti sporchi che la vicina di sopra mi lancia nel giardino tutti i santi i giorni, senza dire un fiato, perché ai romani basta una guardata storta per fare male. Starò sempre senza monete per potermi sentire in colpa con i cassieri e tornare sempre a casa con la voglia di sbatterti al muro e dirti tutto quello che penso.

Anche adesso che non so più che cosa sto dicendo, che i termosifoni sono spenti e sto morendo di freddo anche se qui l’inverno vero non arriva mai.

Forse è questo che non me ne fa mai andare, il tuo essere quasi un sacco di cose ma non schierarti mai da nessuna parte. Se fuori da qui sento parlare male di te io metto in pratica tutto quello che mi hai insegnato e infamo tutti perché non si devono permettere. Forse solo noi ti possiamo trattare male e dirti tutto quello che pensiamo perché siamo tutti prepotenti come ci vuoi tu.

Se anche alle madri si deve parlare dell’odio allora oggi lo sto facendo e non so dirti se sarà la prima volta o l’ultima ma posso dirti che io non me ne vado e lo faccio solo perché sei tu che cerchi sempre di mandarmi via e ti dimentichi che so’ de coccio come le anfore, dura come i sanpietrini, solida come il marmo.

Roma tu mi levi la vita, ma io che so’ coatta come mi hai voluto tu, io ti guardo negli occhi, te lo dico in faccia e no che nun te lascio.

Quando non ne potrai più allora fammelo sapere che t’aspetto fuori nel cortile e vediamo chi vince sta rissa. Mi levo tutti gli anelli e ti do tante di quelle botte perché prenderti per il collo è l’unico modo per abbracciarti ancora.

La posta di Olimpia-Sul senso dell’inquietudine e dell’orgoglio

1-Cosa posso fare se non mi sento per niente bene con me stessa? Brutta, insoddisfatta e non riesco a cambiare. Grazie per eventuali consigli.

R.

 

Cara R. quando ho letto la tua domanda mi è preso un colpo perché avrei voluto improvvisamente essere uno di quegli oracoli dell’antica Grecia che tu facevi una domanda e loro ti davano LA risposta. Che poi era sempre una cosa incomprensibile ma nessuno aveva il coraggio di chiedere ao, si vabbè ma che hai detto? Ciò nonostante ti sparavano una frase che era quella e basta. Un po’ come un biscotto della fortuna al ristorante cinese: Fai cose che fanno stare bene spirito perché spirito di essere umano sempre importante.

Invece sono solo Olimpia la rompicoglioni e quindi farò una di quelle cose che fanno venire voglia di sbattere i pugni sul tavolo e che è fastidiosa come le unghie sulla lavagna: io ti risponderò a una domanda con un’altra domanda perché altrimenti entreremmo in un tunnel filosofico senza uscita in cui ragionare sul concetto di insoddisfazione e di bellezza fino a spingerci al perché diavolo abitiamo in una palla sospesa nel vuoto infinito e chi ci ha messo qui.

Però devo dirti che per essere una domanda ha un nome molto incoraggiante che non gli ho dato io ma un tizio americano che fu psi molto prima e molto meglio di me. Lui la chiamò la domanda del miracolo. (Piccolo intervento nerd: lui si chiamava Steve de Shazer e aveva una faccia molto simpatica. Lavorò a lungo insieme alla moglie coreana, psi pure lei, con la faccia simpatica pure lei. Nella mia testa na specie de John Lennon&Yoko Ono delle cose dell’anima).

È una di quelle cose che ho studiato che mi piacciono un sacco e trovo sia un buon metodo per cominciare a prendersi cura dei problemi perché ti costringono a metterli sul piatto, guardarli, contarli e sentire quanto pesano. E fa grosso modo così: “Mettiamo che stanotte succede un miracolo e tu domattina ti svegli e il tuo problema è sparito. Così, puf, per miracolo se n’è andato ad abitare in un’altra galassia. Qual è la prima cosa che ti farebbe capire che non hai più niente di niente domattina quando apri gli occhi? Pensaci un momento e dimmi in che modo la tua vita sarebbe diversa e cerca di descriverlo con quanti più dettagli possibili.”

Fico, eh? Io non ci avevo mai pensato a chiedermi le cose così. Chiedendole veramente come se dovessi rispondermi e non soltanto pensando al fatto che mi sento di merda la maggior parte del tempo che passo sveglia.

Se funziona? Sissignora, funziona. Dare un nome all’inquietudine funziona sempre e per cambiare dobbiamo prima capire che cosa vogliamo cambiare. Basta questo per togliersi i problemi dalle palle? Assolutamente no ma tutti cammini del mondo cominciano sempre con primo passo, come direbbe il mio invidiato biscotto cinese.

Olimpia

 

2- Buonasera, vorrei chiederle cosa pensa dell’orgoglio di una persona sopratutto quando si impunta nelle sue decisioni e dice di no ritornare mai indietro. Come bisogna comportarsi con queste persone? E come posso fargli capire che mettere da parte l’orgoglio non significa ritornare indietro ma maturare?

M.

 

Cara M. tu sei un tesoro ma non darmi mai più del lei che poi mi risento dottoressa e mi viene da ridere perché mi ricordo della mia prima esperienza da psi, in un ospedale, dove pensavano davvero che fossi the doctor perché avevo il camice bianco, 19 anni e le maniche arrotolate sette volte perché quel coso era enorme e io non smettevo mai di sembrarmi più la garzona del macellaio della Coop che qualunque altra cosa.

Mi sembra di fiutare che stiamo parlando di un maschio che, ahinoi, non ti vuole e non di un gruppo di persone. Potrei sbagliarmi ma voglio giocare d’azzardo.

Allora, io dell’orgoglio della gente penso tutto e penso niente però una cosa la so: quando qualcuno decide qualcosa, se noi cerchiamo di fare in modo che cambi idea, quello si impunta di più e non ti darà mai ragione. Anzi, più ci provi e meno ci riesci. Più ci provi, più rischi che non solo non ti daranno ragione ma non vorranno proprio più sentire nessun tipo di spiegazione. Perché non c’è niente di più sacro, più immobile e più cocciuto delle decisioni che prendiamo. Semplicemente perché abbiamo la naturale tendenza a pensare di avere più ragione noi di quella che hanno gli altri. Perché? Perché mia cara, non c’è nessun cervello con cui passiamo più tempo del nostro, nessuna anima, nessun pensiero. Noi conosciamo tutte le sfumature, gli altri no, quindi che cazzo vogliono da noi?

Se ci pensi è proprio per questo che anche tu pensi di avere più ragione degli altri a dire che gli altri si stanno sbagliando. Ma tranquilla, non è una cosa che non capita mai. È una cosa che capita sempre. Sta capitando anche a me mentre cerco di spiegarti le mie di ragioni.

Con queste persone bisogna prendere spazio e prendere tempo, voglio dire farsi da parte e aprire pure la porta. Secondo te, se quelli vogliono uscire e tu ti metti davanti, non aumenterà la loro voglia di scappare e di avere ragione? Noi tutti quanti vogliamo sempre scoprire come sono le cose che ancora non abbiamo e il perché lo spiegherò meglio un’altra volta altrimenti attacco il siluro.

Dai il buon esempio, metti da parte il tuo orgoglio e intanto vai avanti maturando tu e lasciando andare chi sta cercando di aprire la porta. Tanto solo se li lasci uscire e vedono il resto possono avere l’occasione per capire che magari invece avevi ragione tu e che dentro si stava meglio di come si sta fuori.

Olimpia

La posta di Olimpia-Ho 24 anni e non mi hanno mai amata

Cara Olimpia,

ti scrivo da un giorno di ordinaria disperazione, anzi no: almeno per oggi non è poi così tanto ordinaria, se non altro per il motivo. Sto aspettando la risposta di un messaggio mandato a un mio “amico”, che ha deciso di andarsene nel bel mezzo della conversazione, chissà a fare che: lo spuntino della mezzanotte, pisciare? Tutto può essere. Ho sempre avuto per lui un interesse che va aldilà dell’amicizia. Lui lo sa, perché io gliel’ho detto, ma non corrisponde (?) e l’amicizia continua – spero che tu capisca il mio punto di domanda, corrispondere, non corrispondere, che significa poi? – ora mi ha risposto e vado a vedere. Solo un minutino, però, per far attendere anche lui, mi sembra abbastanza giusto. Non sono mai stata fidanzata, ho 24 anni. Ho mai amato? Beh, questa è più complessa, ma ti direi di si, in forme più sottili, certo, nascoste, mai palesi, ma profonde. Forse ho amato anche molto, dall’interno di un buco nero dove nessuno poteva vedermi. Ho amato nel silenzio, e come accade in questi casi non sono stata ricambiata, e ho perso un po’ la speranza. L’ho persa un po’ del tutto. I. – si chiama così – è l’unico che continua ad abitare i miei sogni, ma aspetta un attimo, devo rispondergli, o diventerà tardi.

E voilà, ha risposto qualcosa che non doveva rispondere. Non importa. È un egocentrico triste che non ammette di esserlo, ed è un sogno che ormai puzza di muffa. Cinque anni sono troppi per un sogno così. E dunque io rimango qui, nella mia cameretta di casa, in attesa di un nuovo giorno per deprimermi. Come si trasforma la paura in voglia, Olimpia? Volevo chiederti questo. Come si rende il tempo un alleato per se stessi? Io sono sempre stata una grande sognatrice, ho sognato talmente tanto che qualche volta mi sento stanca dei miei sogni. Ma la mia immaginazione va da sé, è l’unica parte di me che non si esaurisce mai, insieme alla tristezza. Un connubio fatale.

Mentre immaginazione e tristezza volavano ho fatto l’università di psicologia, con buoni risultati. Ora sto per laurearmi, e poi non so assolutamente quale delle tante sfaccettature della professione “psicologo” vorrò intraprendere. Per ora so solo che ho scelto la psicologia del lavoro e che mi fa schifo – è la prima volta che lo dico così apertamente sai? Nel frattempo cerco di capire quanto la mia infelicità potrà impedirmi di svolgere bene il lavoro che ho scelto.

I sogni sono sempre stati la cosa più bella che ho mai avuto. Eppure questa mattina mi sono svegliata, e ho pensato che sognare era uguale a morire, perché mentre sogni la vita va avanti senza che tu la stia vivendo. Che 24 anni sono pochi per morire, e dovrei iniziare a vivere. E indovina? Non sapevo da dove iniziare. Non consigliarmi uno psicologo, ci vado già da sette mesi e anche se non sembra abbiamo fatto progressi.  Da qualche parte ho letto che le nostre azioni dovrebbero assomigliare più ai nostri sogni che alle nostre paure, e da quel giorno ho paura anche un po’ di sognare. Da dove si inizia? Tu hai scritto in un tuo post che ti è successo quello che succede a tutti: il tempo. Ti devo correggere: con me non ha funzionato neanche lui.

Un abbraccio,

A.

P.s. Mi piace il tuo blog, il nome Olimpia e la posta del cuore: mi ha ricordato che è bello scrivere a qualcuno che non conosci affatto. Mi piaci tu perché hai l’aria di una che ce l’ha fatta, pur conservando tutta la sua normalità e le sue “nevrosi” (passami il termine, non sono nemmeno sicura di sapere bene che cosa significhi ma ci stava proprio bene).

Cara A.,

quando ho avuto questa idea non volevo commuovermi così alla prima botta e lo accetto giusto perché soffro di congiuntivite cronica e l’umidità un po’ aiuta.

Io penso spesso che quando non sai da dove cominciare allora tocca cominciare dalla fine. Purtroppo sono figlia unica quindi ho il vizio di fraternizzare e sorellizzare con chiunque si faccia delle domande che hanno già tolto il sonno a me e perdonami se con te farò lo stesso.

Il tempo inizia a funzionare quando noi cominciamo a romperci le palle di essere come pensiamo di essere e gridiamo basta da un punto così profondo che farebbe uscire l’acqua dal deserto, gli incatenati dalla caverna di Platone e quello spezzatino venuto troppo piccante che tengo in fondo al freezer dal 2008. E secondo me tu ci stai cominciando a stare stretta in quel buco nero nero dove nessuno può vederti. Sai, le cose brillano alla luce, nell’ombra si confondono con i muri quindi staccatici subito perché non sei un cartonicino da parati.

Anche se ti consiglio comunque di vedere questo film che mi è tornato in mente mentre scrivevo “muro”: https://it.wikipedia.org/wiki/Ragazzo_da_parete

Ecco, quando non ne possiamo più di fare sempre nello stesso modo, il tempo diventa nostro alleato perché ci fermiamo ad invertire la rotta invece di lasciarlo scorrere come se stessimo su un tapis roulant. Finché aspettiamo solo un minutino per rispondere a un messaggio e una vita per rispondere a noi stessi corriamo veramente il rischio che diventi tardi. Pensaci, chi sta facendo aspettare chi? Tu il tuo amico oppure la parte che s’è rotta er cazzo de sta’ male aspetta l’altra? Le risposte giuste non compariranno sui nostri telefoni finché sbagliamo le domande e che lo spirito di Kant mi fulmini alle spalle se sto usando male i concetti della filosofia. A tal altro proposito c’è un altro film, preso da un libro che si chiama Guida intergalattica per autostoppisti in cui ad un certo punto viene costruito un grande computer che deve rispondere alla domanda sull’universo, la vita e tutto quanto il resto. The big pc dice che che tra un trilione di anni avrà pronta la risposta. L’umanità tutta si riunisce quel giorno lontano, con trombette e cappellini e tutti in festa quando ecco che la macchina risponde: La risposta all’universo, la vita e tutto il resto è…42! Che cosaaa gridano tutti e the big risponde eh vabbè regà, ma che domanda m’avete fatto pure voi però! Spero di aver reso almeno un pochettino.

Le tue domande sono splendide e curano i miei occhi secchi, però le dobbiamo formulare diverse. Proviamo con che cosa ti aspettavi dall’amore quando eri bambina e come doveva essere il tuo principe ranocchio? Te lo ricordi baby? Perché mi ci scommetto le metaforiche palle che non era certo un egoista triste e un po’ ammuffito. Il poco che ho capito sulle verità dell’amore credo che stia proprio nella corrispondenza (o rispondenza anche), come a dire io ti penso mentre tu mi pensi e sorridiamo insieme perché lo facciamo nello stesso momento.

Tante volte pensiamo che il nostro essere buoni, comprensivi e tendenti alla santità farà in modo che gli altri ad un certo ci ringrazino per il tanto cuore. Invece gli altri cominciano a volerci quando impariamo a dire no e quando smettiamo di aspettare quella redenzione che è compito solo nostro e non dei principi, nemmeno di quelli incoronati, giuro.

24 anni non sono tanti ma non sono nemmeno pochi, probabilmente sono giusti. Quando li avevo io, ho cominciato a vestirmi come una fanciulla e non solo da maschiaccio ma non basterà una vita per insegnarmi a scegliere bene le scarpe e forse nemmeno i fidanzati. Ma io so che le generazioni dopo la mia possono andare più veloci, quindi ti voglio cazzuta e stanca morta della gente moscia per quando spegnerai le candeline di mezzo secolo su questo strano mondo.

La paura si trasforma in voglia e si trasforma in coraggio nell’esatto momento in cui iniziamo a dire basta e ci rimbocchiamo le maniche correndo il rischio che lo facciamo per sentire meglio il vento sulla pelle e non perché stiamo faticando come schiavi nel campo di cotone. Però il requisito fondamentale per costruire il coraggio è proprio quello di cagarsi prima sotto e pensare di non farcela. Vuoi mettere il gusto di stupirsi veramente di essere non cambiati ma solo diventati fedeli alla parte di noi stessi che ci dorme addosso da un sacco di tempo.

Quella cosa tanto bella che hai detto sul sognare e sul morire è il monologo di Amleto. Ehssì, er famosissmo pippone sull’essere e il non essere. Shakespeare glielo faceva dire mettendo bene in risalto che se avessimo coscienza di quello che ci aspetta dall’altra parte, allora ci pianteremmo una coltellata tra le costole visti, sopratutto, gli spasimi dell’amore disprezzato. Ma siccome non ce l’abbiamo tanto vale arrendersi alla sfiga e continuare a soffrire da codardi. Però oh, il principe di Danimarca era un depressone maledetto e comunque aveva avuto una vita di merda e recitava queste cose con un teschio in mano.

Tu invece hai una vita in mano, vedi di stringertela addosso senza permettere che ti tolga il respiro. Esci mia cara A., perché se c’è qualcuno che ti sta aspettando è solo il tuo specchio che vuole vedere come impari a sorridere senza prenderci troppo gusto nella tristezza, che poi ti ci perdi dentro e pensi di meritarti solo quella.

P.S. Dal profondissimo del mio cuore ti voglio dire che i migliori psicologi sono quelli che del dolore ne sanno qualche cosa, altrimenti come faremmo a capire quello degli altri? 

P.P.S. Nevroticona fino al midollo, qualunque cosa voglia dire, qualunque cosa abbia a che vedere con l’essere sempre a un passo dall’essere arrivati perché non c’è niente di più fermo della perfezione.

Sei una cuoriciona, comincia a distribuirti a chi ti cor-risponde, secondo me sei pronta.

Olimpia

Raccontini-Over&Out

OVER & OUT

(Codice di fine trasmissione nella procedura radiotelefonica)

Non pensava che le cose potessero andare così, si guardò intorno con aria sconsolata e si incamminò verso l’uscita.”

Ecco, un buon narratore l’avrebbe descritta così: dall’alto. Invece lei ci sta ancora dentro a quella cucina assurda, coi ritagli di giornale che gridano ribellione attaccati al frigo, l’orologio fermo all’ora legale in pieno inverno e quella patetica cerata sul tavolo con disegnate le ricette regionali dell’Umbria. Però è vero che non l’avrebbe immaginato mai. Quando l’aveva conosciuto lui era brutto ed era pure stronzo. Di una stronzaggine grossolana, da sportellista di un ufficio pubblico in ora di chiusura. E si vestiva male: la prima volta portava un maglione arancione con le trecce. In prospettiva si sarebbe presa a schiaffi da sola, negli infiniti dormiveglia sudaticci, per non aver riconosciuto il diavolo anche solo da quel particolare, in quel dettaglio di cattivo gusto che già di per sé valeva un pugno. In un occhio.

Ma quest’ultimo punto odora già di presa coscienza, mea culpa e futuro, torniamo in cucina: piove e lui le offre persino un bicchiere di vino mentre, con quell’inflessione dialettale da romano di barzellette, le ripete: Io non so che ditte, nun te amo, capito? Io nun te amo.”

Gli esseri umani immaginano i graffi dell’amore in endecasillabi formali e dizione alla Vittorio Gassman che legge il menù.Mi prenderà le mani e, occhio nell’occhio, mi dirà che l’esistenza grava e riempie così tanto da non concedere il lusso di un amore. Mi dirà che la patria lo chiama a rispondere in un posto molto lontano, che la santità lo invita alla castità, che motivi familiari offuscano la sua anima, che la salute lo obbliga ad una clinica spirituale tibetana e non vorrebbe mai condannarmi ad una vita di monaci calvi e bacche secche. Mi dirà che il cane gli ha mangiato il quaderno in cui ci aveva disegnato il suo cuore. Pur sempre cagate ma, almeno, sonoramente ritmiche.

Gli esseri umani in fondo sperano di poter tornare a casa e piangere come nei film, strappando Kleenex (ma poi chi cazzo li ha mai comprati i kleenex?) da una scatola pronta sul comodino, mentre un’immaginaria radio ti regalaI can’t liiive, if living is withouuut you. Gli esseri umani sperano di poter cambiare la superficie e pure il fondo. È così aveva fatto anche lei, trasformando quel maglione orrendo in cotone fresco, le frasi da osteria in versi di un Neruda postumo. Ma la realtà, alla fantasia, je spacca sempre er culo, come proprio lui aveva detto una volta e lei, per ostinato spirito di contrarietà, quella realtà di egoismi rotondi, docce saltate e giochetti di potere l’aveva fatta diventare l’odore dell’estate, fiori dal cemento e indiscusso amore. La vigliaccheria in timidezza, diamanti dalla merda: ecco che cosa aveva fatto.

La pioggia aumentava, aumentava il battito, aumentavano le sigarette spente, l’orizzonte pareva un punto nero. E allora lei lo fa: si alza di scatto, mette le mani in tasca e tira fuori due evidenziatori abbandonati raccolti nel parcheggio, li sbatte sul tavolo e dice: Mettitici in evidenza sto cazzo, tanto scomparirai lo stesso. Esce di casa, le orecchie le fischiano, sbatte la porta, dio quanta pioggia, ha detto no. No al colesterolo cattivo, no a chi le ha detto di no, no all’arancione, al malamore, alle ricette regionali sbiadite, al vino scrauso. No era stata la sua prima parola, a sua nonna negli anni ottanta.

E no che non l’avrebbe fermata il portone del cancello chiuso a chiave, infatti lo scavalca, goffa come un ciccione alla maratona, ma ci riesce. Le formicolano le gambe per il salto mentre cerca le chiavi della macchina in una borsa enorme e piena di oggetti che al freddo delle mani non si lasciano distinguere. Entra nella scatola di latta con la gloria addosso di chi arriva secondo su due, la bellezza dei vinti col trucco sciolto a forma di panda, il cuore una briciola e il sorriso all’ingiù di chi, non sapendo che all’equazione mancava il fattore X, ha preferito mettere in dubbio se stessa pur di ottenere un risultato. Accende la radio e sbatte su tutti i tasti finché non smettono le parole e sente una melodia qualunque. Arrivata a casa dirà allo specchio che è stata bravissima, intanto alza il volume e

tremando e tremando forte,

lei ballerà sulle stelle accese e scoprirà,

scoprirà l’amore

l’amore disperato.

Disperato, oh“.

 

La posta di Olimpia

Quando ero ragazzina per casa mia girava sempre Il Venerdì di Repubblica e io lo aspettavo sempre manco fosse la mia mattina di Natale. Appena entrava in casa me ne impadronivo e schizzavo subito a leggere una cosa che in realtà esiste ancora. Saltavo gli articoli di attualità, le recensioni dei libri, i programmi TV e giuro anche l’oroscopo per inchiodarmi su quei due paginoni in cui la gente mandava le lettere e quella signora col caschetto bianco e la lingua pungente, al secolo la giornalista Natalia Aspesi, dava le sue risposte spesso un po’ più acide del necessario ma spesso anche intelligenti e quasi mai retoriche.

Ecco a me quella cosa lì piaceva parecchio e vorrei farne una anche io ma dando la possibilità a chi vuole, di aggiungere un commento, un’opinione un vaffanculo o quello che è perché secondo me è una cosa carina e magari ne viene anche fuori qualche riflessione interessante.

In giro ce ne sono tante di queste “poste del cuore“, fatte da personaggi che si improvvisano grandi guru e fino a ieri facevano le vallette in tv e spesso hanno dei toni così banali e ovvi e il mio edicolante saprebbe dirvelo meglio. Io non penso di essere necessariamente migliore però sono una psicoterapeuta, mi piace leggere e mi piace scrivere ma sopratutto le cose che riguardano le persone sono tra i temi che preferisco.

Quindi dai, facciamolo. Raccontatemi i cazzi vostri, qualcosa che vorreste tanto dire ma non avete il coraggio di farlo, qualcosa che vi tormenta, qualcosa che vorreste cambiare, qualcosa che vi pare.

Io mi impegno a scegliere e pubblicare (ovviamente senza il vostro nome) una lettera con risposta a settimana tutti i lunedì, voi scrivetemi qui: olimpiaparboniarquati@gmail.com 

Tutti meritano uno spazio in cui avere voce

Buon anno eroi,

Olimpia

Raccontini-Come non perdersi in un bicchiere d’acqua

Teneva i piedi vicini e con le punte rivolte all’indentro, come un bambino timido al centro di una festa piena di gente. Invece non c’era nessuno. L’acqua cadeva a secchiate stracolme, col peso specifico di tonnellate di piombo e sembravano i cori senza parole ma pieni di rabbia e rumore che sentiva ogni volta allo stadio.

Non un volto, una gamba, un braccio, un piede bagnato. Soltanto un mantello di milioni di spilli che inondava, letteralmente, tutti i pensieri che venivano a galla.
Macchine calde e protette alzavano schizzi ai bordi del marciapiede, tutt’intorno finestre sbarrate ma piene di luce al sapore di cioccolata bollente, densa e preclusa.
Il mondo sembrava sempre molto più esperto a gestire i problemi di lui, che invece sognava arcobaleni mentali, mentre sfondava con i pugni stretti le tasche, per trovare il caldo, il sereno, la pentola proprietà del folletto.
Il mondo invece sembrava averci sempre un impermeabile, nelle tasche. Un infallibile piano B per quando le cose cominciavano a fare acqua da tutte le parti.
Maledetti voi che avete il culo asciutto e parato, pensava, ma come fate a fiutare tormenta e trovare riparo? Mentre a me tocca solo questo scalino stretto e lontano da casa.
Aveva sempre odiato la pioggia, da quando sua madre lo mandava all’asilo con ai piedi le buste di plastica di un supermercato poi andato fallito, invece degli stivali di gomma che avevano su disegnati i personaggi dei cartoni animati e che ti davano una scusa rotonda e perfetta per amare tutte quelle pozzanghere. Invece degli stivali che avevano tutti. Tutti gli altri tranne che lui.
Era questo il pensiero che lo avrebbe fatto affogare anche in un deserto di sabbia: l’essere impreparato lo rincorreva come un ascendente sbagliato fa con i figli nati sotto una stella cattiva.
L’unico scemo senza la maschera nelle foto di classe fatte a carnevale, il bambino con la tuta spaiata e la felpa dell’Ape Maya. Eredità di sua cugina maggiore che un po’ si vestiva da maschio e quindi, alla fine, era uguale.
A dodici anni in panchina a calcetto, a quindici l’apparecchio fisso e il primo bacio verso i 21 al Camping Rubicone di Savignano a Mare, con una tedesca grassa di cui non ricordava il nome. Ma non dimenticava il rumore del traffico sudato sull’Adriatica.
Poi la chimera di una laurea “spendibile”, come l’aveva chiamata allora per giustificare il suo sogno mediocre e pratico, preso da cassetti spalancati, di partecipare attivamente al benessere domestico contemporaneo, implementando la rete economica dedita al design.
‘Addetto vendita arredo bagno piastrelle pavimenti’ recitava senza virgole il biglietto da visita che aveva fatto stampare una volta soltanto e poi basta. Non ce l’aveva più fatta a non pensare che cercare di abbellire un cesso fosse, in parte un lavoro di merda, in parte la storia della sua vita.
Inutile infierire ancora, sarebbe stato come sparare su un’ambulanza che ha appena bucato una gomma, o meglio, come cercare di difendersi dal temporale del secolo cercando di spalmarsi su un portone d’acciaio e farsi bastare 10 centimetri di gradino e 5, o forse zero, di tettoia.
Una specie di piccolo fiammiferaio goffo in mocassini, zuppo e triste, ad invidiare le case e le cose degli altri. Ecco come si sentiva in quel momento che di anni ne aveva quasi cinquanta e un curriculum di false partenze e mancati arrivi nemmeno fosse stato Achille, quello del paradosso, oppure la tartaruga, non ricordava bene.
Fu allora che ci ripensò: “Un bicchiere a metà può essere allo stesso tempo mezzo vuoto e mezzo pieno. E questo viene definito paradosso, vale a dire una cosa difficile da credere perché contraria all’opinione comune e che però è così e nessuno può dare un giudizio più vero dell’altro.”
Forse fu quel tuono improvviso più forte degli altri e niente fulmine come introduzione, forse l’ennesima goccia pesante entrata nel colletto da dietro senza bussare, o forse fu proprio tutta quella vita da comparsa senza battuta e quella vecchia lezione di filosofia che parlava di uguali, contrari, possibili.
Fu niente e fu tutto che gli fecero venire voglia di staccare la schiena da quel finto riparo e togliersi le scarpe, la giacca e tutti i vestiti che c’erano sotto.
Furono le mancanze sul podio a urlargli, a gran voce, da dentro, che la sua era una vita piena. Magari di vuoti, ma piena.
Tutte le volte che aveva ascoltato la musica da solo e a tutto volume, lui era stato felice.
Quando suo nonno gli aveva regalato una medaglia al valore, staccata dall’uniforme, perché aveva salvato una rondine, lui era stato felice.
Ogni volta che pioverà e si concederà le lacrime senza vergogna, lui sarà sempre, anche, felice.
Perché è da vigliacchi pensare soltanto che siano tutti gli altri e non te, senza capire come sia vero, lo stesso, dire che sia solo tu e gli altri, per niente.
E così furono centinaia di macchine calde e finestre protette a vedere un uomo nudo correre sotto la pioggia, con il sorriso di chi non gareggia ma sta solo viaggiando, leggero leggero sotto il cielo pesante, e migliaia di occhi invidiare quell’essere umano così uguale a loro ma così diverso.
Nessuno capì che stava anche piangendo, per aver perso tutto quel tempo a decidere che nel tuo bicchiere non sono le gocce a contare, ma quant’è grande la sete con cui ti fermi a guardarlo.

Il bello di essere sfigati

Quando avevo sette anni i miei genitori fecero una grande festa per il mio compleanno e io la passai nascosta dentro l’armadio a guardare gli altri che si divertivano in giardino. A dodici, se stavo male, spiavo il ragazzino che mi piaceva col binocolo mentre giocava nel cortile della nostra scuola che era proprio lì di fronte. Due anni dopo tornavo dalle vacanze e mi inventavo nomi di piccoli principi azzurri che mi avevano voluto bene durante l’estate perché tutti avevano una storia da dire, tranne me.

All’alba del giorno dopo la mia festa di diciott’anni mi svegliavo sul divano di casa dove mi ero addormentata prima di mezzanotte, camminavo facendo lo slalom tra vari amici distesi ovunque che avevano fatto l’alba nel mio salotto, mi mettevo la giacca, uscivo in terrazza, mi accendevo una sigaretta e confessavo a me stessa di essere nient’altro che una grandissima, ma grandissima, sfigata del cazzo.

Da quando avevo memoria non ne avevo azzeccata manco una, non mi ero mai sentita nel posto giusto al momento giusto, mai detta la frase giusta alla persona giusta, niente. Un’attrice non protagonista nel cinema della mia vita, praticamente una comparsa che sparava qualche parola che nessuno si sarebbe ricordato mai tipo quella che serve gli hamburger in Pulp Fiction. Ma quale? Appunto.

Passavo ore infinite a pensare quanto sembrasse meglio tutto ma proprio tutto quello che capitava agli altri. Tutto più felice, tutto più fico, più facile, più bello.
Tutto molto di più di quanto avessi o sapessi o potessi fare io.
Non mi ricordo quanto spesso mi ammazzassi di pianti in camera, con la porta chiusa a chiave e la faccia dentro al cuscino, ma comunque stavamo tra le due e le duecento volte al mese.

Ma volete sapere la parte peggiore di tutta questa cosa qual era? La parte peggiore è che forse non lo sembravo nemmeno una grandissima sfigata del cazzo, sembravo normale. Avevo le scarpe che avevano tutti e tutti gli accessori che avrebbero fatto dire a tutti “toh, niente di meno, niente di più“. Al massimo qualcuno avrebbe detto che ero giusto un po’ strana. Aggettivo che oggi amo più di qualsiasi complimento e vorrei pure vedere, co’ tutta la fatica che faccio per stare lontana dalle cose normali. Ma rimane il fatto che quel cuscino sempre umido mi teneva sempre sul pezzo e mi ricordava quanto fossi sfigata almeno nell’anima se non nell’abito.

Poi è successo quello che succede a tutti: il tempo. A 19 anni inizio a lavorare come cameriera, più che altro per avere sempre una risposta pronta quando si trattava di avere piani per il fine settimana. E allora comincio a fare le 5 di mattina per forza, a conoscere gente per forza, a sorridere prima per forza e poi addirittura per piacere. Due anni dopo cambio città per continuare a studiare e mi ritrovo in un posto molto piccolo dove imparo una delle lezioni più grandi che ho mai imparato. La imparo anche qui, più per forza che per amore ma alla fine non cambia niente perché la imparo sul serio.

Eravamo pochi, pochissimi. Niente a che vedere con l’idea che mi ero fatta degli splendidi anni di college che avevo rubato dai film. Sembravamo i superstiti di Lost costretti insieme dalle contingenze e scopro il grande paradosso della maggior parte degli sfigati nell’anima: scopro che non solo mi sentivo sempre fuori da tutto ma io per prima tenevo sempre tutti fuori. Ero diventata una miscela letale, quella che si sente un’imbecille ma finisce per sembrare una stronza. Non raccontare mai quasi niente a nessuno, convinta che tanto non si sarebbe capito o non mi sarei spiegata, mi aveva fatto diventare snob, una grandissima snob del cazzo.

A quel punto avevo capito abbastanza per cominciare a parlare sul serio con gli altri diversi dal mio cuscino e posso dire di non avere mai smesso. Ovviamente non è una cosa che ho finito di imparare e mi capita spesso di ritrovarmi ancora ingabbiata nell’abbraccio della sfiga. Tutte le volte che gli altri mi sembrano migliori o diversi ci ricasco sempre e per un attimo mi rimetto la tutina da supersfigata con la faccia da stronza ma poi me la faccio passare semplicemente sorridendo per prima, parlando per prima e riscoprendo ogni volta che certe malinconie ci vengono sopratutto perché siamo pieni di pregiudizi su noi stessi. Così pieni che non prendiamo nemmeno in considerazione tutti i pregiudizi che possono avere gli altri, non su di noi, ma su loro stessi.

Forse ogni essere umano che si guarda allo specchio oppure dentro trova sempre un seme di sfiga e forse raccontarcelo è uno dei modi migliori per stare attenti durante tutte le prossime volte ad essere noi quelli che fanno il primo passo perché sì, va bene lo specchio, ma anche le facce degli altri ci raccontano come siamo. E allora diamoglielo questo sorriso, pronti a correre il rischio di essere un po’ meno niente di quello che ci racconta il nostro cuscino.

E poi, la cosa veramente bella di essere un po’ sfigati è che nel frattempo che la sfiga ti invade, tu comunque in qualcosa ti devi impegnare per stare a galla e sentirti più pieno. Io non ho mai avuto quello stesso appetito per le cose belle che avevo quando piangevo. Mi sono circondata di musica e libri e frasi e saggezze e cose importanti scritte con la bomboletta spray sulla porta del bagno. E poi ancora sogni, tantissimi sogni.

Molto prima di sentirmi una sfigata del cazzo leggevo sempre una storia. Quella di una bambina a cui un mago regalava 3 noci, dicendo che dentro c’erano cose che le avrebbero salvato la vita in momenti diversi. Lei gli dà ascolto e se le porta in tasca fino a che succede davvero che ogni cosa nascosta lì dentro finisce per salvarle la vita. Quindi tutto quello che fate e imparate mentre vi sentite sfigati, non lo buttate, tenetelo in tasca e abbiate pazienza ma abbiate anche il coraggio di parlare per primi.

Cose che mi fanno incazzare

Non sono mai stata una persona di buon carattere e a questo punto non penso che lo diventerò mai. Sono una persona piena di capricci, di ansie e di fissazioni. Sono rancorosa, polemica, presuntuosa e votata al puntiglio sugli altri e su di me. Sono anche una che fa sempre tardi, che non rispetta le scadenze e faccio fatica a seguire le regole. Ma c’è una cosa su tutte che mi rende antipatica, io sono una persona che s’incazza quasi ogni giorno.

Praticamente ho un’incazzatura diversa per ogni giorno del calendario e spesso ne ho più di una per ogni santo. Io mi incazzo, sbuffo, alzo gli occhi al cielo, borbotto e intervengo dicendo la mia pure quando nessuno la vuole sapere. Ma la cosa peggiore è che quasi sempre penso di avere ragione quando m’incazzo. E lo penso per un motivo soltanto, perché ci sono mille cose che mi fanno sentire una cosa dentro che sembra un vulcano e venire voglia di urlare parolacce in un senso e poi al contrario.

Adesso ve ne racconto qualcuna.

Mi fanno incazzare le giornate di pioggia quando sto in giro e mi fanno incazzare le giornate di sole quando invece devo stare a casa. Quelli che ti vogliono vendere gli ombrelli senza pensare manco un secondo che magari in borsa ce l’hai e magari non sta nemmeno piovendo. Mi fa incazzare che perdo l’ombrello ogni volta che piove e poi smette. E tutte le cose che perdo ogni volta che esco e faccio tardi la sera, maglioni, cappelli, accendini, soldi e a volte anche la dignità. O comunque, almeno, la macchina.

Mi fa incazzare quando mi faccio la doccia e in bagno fa caldo e mi devo mettere i jeans e mentre ancora mi asciugo comincio già a sudare, quindi i jeans col cazzo che me li riesco a infilare. Mi fa incazzare la tenda della doccia che si appiccica da tutte le parti mentre tu vorresti soltanto 10 minuti in cui stare tranquilla come fanno le tipe delle pubblicità dei bagnoschiuma che pare che nel loro cesso invece c’è il paradiso del Grand Hotel. La gente che lascia i capelli dentro la doccia mi manda fuori di testa come quella che lascia il dentifricio aperto e lo spreme dalla metà. I pigri che non fanno la differenziata, i fissati che la fanno sempre e quelli che lavano i piatti con pressapochismo. Quelli che mentre camminano e parlano si devono a un certo punto fermare per completare la frase e tu stai dietro e praticamente li tamponi e ti guardano pure male.

Mi fanno incazzare quelli che comprano ancora il Manifesto e quelli che sono fascisti non ne parliamo. I razzisti ancora di più, come se uno poi lo scegliesse il punto del mondo in cui nasce, coglioni. Ma anche quelli buoni con tutti mi fanno incazzare perché non scelgono mai e alla fine odiano tutti. Quelli che non cucinano, quelli che si sentono bravissimi a cucinare, quelli che non improvvisano niente e seguono tutte le ricette per filo e per segno forse mi fanno incazzare ancora di più.

Le luci di natale a fine ottobre, le foto di natale a dicembre, le foto del fidanzato o della fidanzata tutto l’anno. Ma a noi, a noi dico, ma che ce frega? L’amore mica è un riscatto sociale, quindi non serve insistere a dire che siete felici che magari agli altri fa pure piacere o comunque indifferenza o comunque ancora siete ridicoli e basta.

Mi fa incazzare chi per strada mi urta per sbaglio e non chiede scusa e la gente che spinge i tornelli come se volesse tirarteli in faccia. Gli arrampicatori sociali che non lo sanno, ma si vede benissimo il gioco che fate, non lo vedete che lasciate la bava a ogni passo che fate?

Quelli che parlano sempre e quelli che invece non parlano mai perché sembra che nessuno al mondo abbia i loro problemi, invece sono sempre simili a quelli di tutti gli altri. Quelli che dicono “questione di principio” e “onestà intellettuale“, quelli che per ogni cazzata che la vita non dà attaccano con “mai una gioia”, ma basta. Dite due parolacce e fatela finita perché non fa più ridere. Mi fanno incazzare moltissimo quelli che si piangono addosso quasi quanto quelli che ce l’hanno fatta e ti raccontano tutto per filo e per segno che manco i bambini alla mamma per farsi dire bravo. Quelli che dicono “che schifo” e non l’hanno mai assaggiato, quelli che col Bloody Mary ci farebbero il sugo per gli spaghetti.

Il mal di denti mi fa incazzare moltissimo, il mal di schiena lo stesso, il torcicollo non ne parliamo. Le case con le enciclopedie all’ingresso e l’argenteria in salotto e le vacanze a Cortina e l’estate in Sardegna. Quelli che chiedono sempre scusa e quelli che non lo chiedono mai, quelli che dicono sempre grazie e quelli che non l’hanno mai detto.

Mi fa incazzare la signora della profumeria qua davanti che non ride mai e pensa sempre che gli devi rubare qualcosa quindi ti segue. I fobici dei cani, quelli che ti sgridano perché tu hai un cane e loro un bambino, anche se il tuo cane si fa i cazzi suoi e il bambino lo stesso. Quelli precisi con i soldi e quelli che si dimenticano sempre che glieli hai prestati.

La gente che tiene cartelle ordinate sul computer mi fa incazzare, anche quelli che tengono le bollette nelle cartelline tutte divise e trasparenti e trovano sempre tutto a partire dal 1950. I maestri e i loro discepoli, le sette, le comitive, le gang mi fanno incazzare.

Quelli che ti fanno alzare dal posto invece di sedersi su quello vicino che comunque era tuo ed era pure più comodo. Gli stizziti, i delusi d’amore, quelli che sono tutti stronzi e quelli che ci credono peggio dei fedeli in dio. I puntuali che quando sono pronti aprono la porta mentre tu stai ancora in mutande.

Mi fa incazzare il traffico e la gente che nel traffico non ci sa stare. Quelli che della musica sentono solo quello che passa la radio e quelli che conoscono tutta la musica e te non sei nessuno. Chi legge troppo e chi non legge per niente, quelli che se dici una frase più lunga di un solo respiro ti dicono che palle e che sei pesante. Quelli che si lamentano in ascensore, in autobus, in fila al supermercato, alle poste. Mi fanno incazzare gli angoli dei tappeti che si girano sempre e i quadri che non stanno mai dritti e i vestiti sporchi che non finiscono mai. La polvere sui lampadari, la polvere sotto il letto, la polvere sui ricordi e sotto le zampe delle sedie.

Mi fai incazzare tu, sì, proprio te che pensi di non valere un cazzo ma lo sai che non è vero perché fai come me la maggior parte del tempo.

E io, che mi incazzo così tanto, mi incazzo con tutto e con tutti, lo faccio soltanto perché anche io, sì, proprio io faccio tutto quello che mi fa incazzare continuamente e non mi perdono mai.

Allora oggi e soltanto oggi io perdono te e quasi quasi pure me stessa e invece di incazzarmi vorrei tanto abbracciarti e dirti che va bene così. Va bene abbastanza il modo in cui sei fatto, però devi guardarti dentro, perché da vicino siamo tutti normali, siamo tutti simili, forse solo un po’ meno speciali di quanto pensiamo. Non ti incazzare.

Olimpia Parboni Arquati