Confessioni di una psicologa senza filtro

di Olimpia Parboni Arquati

Psicobiografie #2 Carl Withaker

Sono stata contenta quando dal mazzo è venuto fuori proprio Withaker (uìtaker) perché è tra quelli considerati più pazzerelli e originali di altri. Nasce nella cittadina di Raymondville, nello stato di New York.

Viene da una famiglia numerosa e rurale, provenienza che gli rimarrà a lungo addosso, quella del topo di campagna. Infatti dirà di essersi sentito schizofrenico per tutto il liceo e aver passato circa 15 anni cercando di capire come adattarsi a una struttura sociale, dopo aver vissuto i primi 15 nella propria fantasia. Ed è proprio in materia di schizofrenia che gli partì quello che chiamerò Il ciavattone, o comunque la grande intuizione. Dopo aver studiato Ginecologia e Ostetricia, nel ’38 decide di studiare Psicologia e inizia a lavorare con gli schizo, rendendosi conto che i poverini qualche miglioramento in clinica lo portavano pure, ma poi tornavano a casa e ricadevano miseramente. Grazie a questa intuizione e al clima di importanza della famiglia che si cominciava a respirare in quegli anni tra gli psi, che Carletto diverrà noto con il nome di terapeuta della famiglia. Per lui il cliente è proprio tutta la famiglia, e non solo i genitori, ma tutta quella che si poteva invitare, si invitava. Nonni, fidanzati, vicini e se non ricordo male una volta fece addirittura portare in studio una teca con dentro il pitone di qualcuno, perché pure sto pitone aveva il suo ruolo all’interno del sistema. (Davvero non mi ricordo se è vero o no, ma nella mia testa è diventata una nozione e comunque rende l’idea).

Withaker è per me noto come il terapeuta da mic drops, infatti a lui sono riferite una serie di considerazioni ed episodi degni del miglior rapper. Ivi a breve ne elencheremo qualcuno.

Il nostro è diventato conosciuto per appunto questa storia della famiglia allargata, molto allargata e per l’uso della figura del co-terapeuta, ossia un collega con cui portare avanti la terapia. Questa scelta ho trovato potrebbe avere due diverse origini. Da una parte ho trovato che lo riprese dalla modalità utilizzata come consulente per i dipendenti di una centrale nucleare, durante la Seconda Guerra Mondiale in cui bisognava concentrare le forze e ridurre il tempo, da un’altra parte ho trovato che invece viene dall’esperienza personale di solitudine e di come aver fatto amicizia con due compagni di liceo, lo abbia davvero aiutato nel suo benessere. In un’altra intervista ancora ho trovato un suo commento su quanto alla fine sia meglio fare la Psicoterapia in compagnia perché da soli è troppo faticoso. E vorrei vedere chiunque ad arbitrare tutta una squadra di calcetto più il pitone, da solo.

La sua terapia viene chiamata anche Terapia dell’Assurdo, nel senso che faceva largo uso di sé stesso più che di vere e proprie tecniche, utilizzando la creatività come risorsa. Credeva nella logica emotiva delle cose più che in quella cognitiva e uno che fu un suo collaboratore per vent’anni disse che Cercare di dare giudizi su Withaker con il lato sinistro del cervello (quello non deputato alla creatività) è come cercare di fare l’analisi grammaticale di Joyce. Secondo questa logica fece varie cose appunto da mic drop, tra cui: mettere al tappeto un bambino per dimostrare che poteva stare calmo, addormentarsi durante una seduta per trasmettere il senso di divertimento che provava, cacciato via una coppia in cui ognuno aveva un amante, dicendo che avevano già ognuno il suo psicoterapeuta e che non gli piaceva l’infedeltà, minacciato di morte da un utente della comunità psichiatrica gli rispose che meno male così aveva un’altra scusa valida per farsela sotto già che gli capitava comunque per via della sua timidezza.

Eppure se i sui interventi funzionavano non sarà stato certo per questi interventi da mattatore, o comunque non solo. Immagino, come in tutte le cose, che una grande dose di passione e dedicazione, anche in questo essere così fuori dagli schemi. Per esempio diventato direttore del dipartimento di Psichiatria, faceva fare ai tirocinanti una terapia di gruppo di prova, in cui tutti i lunedì dalle 9 alle 10, si stava in silenzio. Punto. E tenne un gruppo di scrittura, per quasi 8 anni, con 4 colleghi, riunendosi ogni giovedì dalle 9 alle 12.

Sosteneva che l’obiettivo di ogni famiglia fosse quello di liberarsi dal passato e dal futuro, per tornare a essere. Non dava mai consigli perché pensava avrebbero ostacolato la crescita, perché ogni persona aveva le risorse necessarie per portare a termine il viaggio e che i membri di una famiglia hanno bisogno di sentire la disperazione prima di poter cambiare. Il malessere era spesso tutta una causa della difficile mediazione relazionale a cui siamo condannati in quanto persone. Malessere frequentissimo nelle famiglie e, ovviamente, nel matrimonio. Argomento su cui fece enorme spirito sostenendo cose sagacissime tipo Se non sopportate la solitudine, non sposatevi.

Scrisse varie cose, tra cui Il crogiolo della famiglia che vendette 100mila copie. A me però ne è sempre stato a cuore un altro che si chiama Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, scritto verso gli 80 anni. Ci sono vari spunti molto saggi, molti riferimenti alla sua vita con tanto di foto illustrative, indicazioni per i giovani terapeuti, ha un titolo molto fico e contiene questa ouverture notevole: “Questo non è un manuale di istruzioni e non sono neanche sicuro che sia il manuale di quello che io ho fatto. Il problema è che dubitando di me stesso non mi fido neppure dei miei pensieri. Forse nel loro insieme queste considerazioni sono solo il racconto fantasioso di come sono riuscito a sopravvivere”.

P.S. In pensione tornò a vivere in una casa di campagna simile a quella in cui era nato con Muriel, sua moglie da cui aveva avuto 6 figli. Lui e Muriel avevano inventato un gioco, il ping-pong senza punteggio. Avevano deciso fosse la cosa giusta da fare per divertirsi un po’, senza dovere stare lì a tracciare confini di supremazia della loro storia.

Ecco Carl versione santino, non ho trovato di meglio, nelle altre aveva un doppio mento pazzesco e non mi è sembrato gentile.

I miei pazienti a.k.a. i supereroi

Questa qui la volevo dedicare ai pazienti, i miei, quelli dei colleghi e quelli che nella vita lo sono stati, pazienti. Perché non si pensi mai che gli psicologi non vi pensino. Noi vi pensiamo eccome, a ognuno di voi. Quando torniamo a casa, mentre ci parlate, quando parliamo d’altro, voi ci siete.

C’è il ragazzo che si presentò da me con la playlist che avrebbe voluto fosse suonata durante il suo funerale, quando tutti si sarebbero accorti di quanto è speciale, c’è la donna bellissima che non riesce a trovare proprio l’amore, c’è la mia quasi coetanea e collega che pensa io possa aiutarla nel diventare la psicologa che vuole diventare, c’è chi si strappa le vene per un matrimonio finito, chi la notte non dorme mai, chi si commuove pensando alla nonna, chi sa fare delle riflessioni così belle che dovrei ringraziarlo. Ogni cosa che ci date in mano non è solo un dono, è una responsabilità. Qualcosa ha vinto la vostra fiducia e vi fa dedicare a questo sporco gioco che è la psicoterapia, in cui le maschere andranno sbucciate e di sicuro si piangerà per poter ridere ancora.

Non tutti hanno questo coraggio barbaro di guardarsi dentro, un coraggio che io stessa ancora, a volte, fatico a ritrovare ogni giorno. Non tutti sono disposti a sporcarsi le mani e ricevere certo qualche pacca di comprensione, ma anche un occhio severo su certi aspetti su cui vi incasinate da soli e di cui vorreste fare tutti colpevoli tranne voi stessi.

Quando penso a cosa mi fa felice di questo lavoro la risposta è complessa ma in realtà anche semplice, è quando siete più felici che io sono felice e viceversa. Perché voi, meno male, non vedrete mai tornare a casa sorridendo e parlottando da sola sui vostri successi o insuccessi, però io mi vedo tutti i giorni continuare dialoghi nella mia mente, in cui cerco di portarvi più avanti di quanto sarebbe giusto perché i tempi sono i vostri, ma nella mia testa finite sempre tutti molto felici e molto innamorati di qualcuno o qualcosa.

Un’amica una volta mi ha detto che vuole bene al suo psicologo, anche se non glielo può dire. Beh, io lo capisco il sentimento che c’è lì, perché somiglia a quello che c’è qui. Con tutte le dovute delicatezze etimologiche della parola bene, anche io vi voglio bene. Voglio il vostro bene, probabilmente più di quanto voi vogliate il vostro, visto che spesso chi riconosce di avere un problema non si sente un’autostima grandiosa, sente che è la peggior cacca di questo pianeta. Per questo è importante da una prima piccola persona che in voi invece ci crede abbastanza. Crede nella vostra capacità di rinascita dalle ceneri, anche se prima bisogna appiccare l’incendio. Crede che se una volta a settimana o giù di lì vi prendete il carico di avere un appuntamento con voi stessi davanti a qualcun altro, allora siete già un po’ vittoriosi. Siete già un po’ dei supereroi.

Non ci sono scorciatoie in questa strana giostra che è la vita, ci sono solo emozioni che vanno osservate e capite e lasciate essere prima di poterle estirpare. Ci sono ere che sembrano non finire mai, lo so, lo so quanto possa far male non riuscire a essere felici, se fossi nata felice avrei fatto un altro lavoro. Lo so che ci sono giornate che sembrano non finire più e giornate che sembrano non arrivare mai. Cosa vuol dire farsi schifo e cosa vuol dire pensare che gli altri si accorgeranno di te soltanto quando sarà troppo tardi.

Insomma, due o tre cose sulla vita le so, ma tutte quelle che devo imparare alla fine le impariamo insieme, entrando nella grotta del dolore, ognuno con il suo caschetto con la luce puntata, ma camminando vicini.

Non potrei mai promettere a nessuno di voi che tutto ciò per cui state lottando e soffrendo e sperando, si trasformerà in qualcosa di buono e rassicurante, ma vi posso promettere che io, così come tanti come me, ci mettiamo tutto quello che abbiamo, che siamo, che sappiamo.

Dimenticatevi dello psicologo che bada solo alla nosografia, per incasellarvi in qualche categoria e placare, più che la vostra, la propria ansia di fronte all’infinito. Gli psicologi così ci sono ma sono pochi rispetto al resto, che più che curarvi cerca di avere cura di voi e della vostra visione del mondo. Cercando, come diceva un saggio, di vedere il mondo dal vostro finestrino.

Non siamo nemmeno cartomanti, cui basta una spolverata di informazioni per trasformare il brutto in oro. Siamo persone, che si impegnano a supportare altre persone e per farlo bene dobbiamo fare i compiti a casa, cioè pensarvi anche fuori dall’ora che vi dedichiamo. Abbiamo tante storie da custodire e tante ricchezze spesso inespresse o messe nell’ombra che dobbiamo imparare a leggere per continuare a scrivere il romanzo della vostra vita e i veri capitani di questa avventura coraggiosi siete sempre voi.

Senza di voi la psicoterapia non esisterebbe proprio, senza la vostra fiducia e il vostro tormento. Ciò non vuol dire che il tormento non lo possiamo addolcire, ma comunque siete fondamentali all’esistenza di questa cosa nel mondo che è fatta di parlare, parlare, parlare e cercare, cercare, cercare. Siete preziosi quando ci chiedete noi come andiamo, anche fosse per intermezzo comunicativo e non per vero interesse, però lo apprezziamo. Quando ci tenete a farci piccoli regali per il percorso fatto insieme, che se ha dato un senso alla vostra esistenza, vi assicuro anche alla nostra. E non perché ci compriamo la casa al mare con i vostri guadagni, davvero, gli psicologi non lo fanno per la ricchezza del portafoglio, ma perché se no non saprebbero che altro fare di loro stessi.

Insomma supereroi, in questo tragitto di strada che percorriamo vicini, che ogni giorno sia lodata la vostra capacità di sporcarvi le mani con il vostro stare male. Se avete già questo piccolo e grande coraggio nel guardarvi dentro, state diventando simili alle persone a cui volete somigliare. E fidatevi che per ogni vostra buona lacrima sulla questione, da qualche parte, quando ci regalate la vostra fiducia, ci sarà sempre uno psicologo che cammina mentre torna a casa e pensa a voi e a tutto quello che una persona può fare, quando decide di farlo, per se stessa.

Psicobiografie #1 Steve De Shazer

Raccomandazioni generali: la presente, sintetica descrizione dell’uomo non serva a sperimentare quelli che possono sembrare facili trucchi da soli in casa. Tutto ciò che sembra molto semplice è frutto di anni di studio e forti idee, le cui fondamenta possono essere ammirate o criticate, l’importante è non correre mai con le forbici in mano, ma prenderne spunto per libere riflessioni.

Che razza di vita sarebbe se me ne restassi a casa seduto tutto il giorno?” Così disse il protagonista della storia di oggi, pochi giorni prima di morire mentre si trovava a Vienna per un ciclo di conferenze.

Steve De Shazer (Stiv DeSceiser) nasce in Milwaukee, nello stato del Wisconsin (quanto mi piace dire Uisconsin) da padre ingegnere elettrico e madre cantante d’opera. Prima di diventare psico, si lancia nel mondo dell’arte e della musica, diventando pure un sassofonista pro. Di lui si dice pure fosse molto interessato alla cucina, io dico che è perché è uno di quei pochi momenti in cui noi psi proviamo gusto nello stare zitti e possiamo creare un buon risultato, ma insomma questo lo dico io, alla fine chissà perché, ma soprattutto perché no.

In questo clima di domandarsi è lecito, rispondere non sempre, entriamo a bomba in quella che sarà la sua creatura, la Terapia centrata sulla soluzione, di cui fu fondatore insieme alla moglie, psi pure lei, Insoo Kim Berg (di origini coreane, direi Insu kim berg), nel 1978.

Insomma a 38 anni suoi e qualcuno in più della moglie che era più grande, decidono insieme che basta con questo rivoltarsi a doppia panatura nella ricerca delle cause, piuttosto costruiamo una soluzione.

Qui vedo anche qualche profano infilarsi le mani tra i capelli e gridare all’eresia. Infatti come possiamo credere nella buona riuscita di una terapia che per definizione attacca il nocciolone duro di tutte le terapie. Su questo, da agnostica quale, sono, lascio a ognuno la libertà di interrogarsi a modo suo.

Io penso che fu in buona parte l’incontro con il ragionar del Mental Research Institute, luogo di Palo Alto che andava alla grandissima dagli anni ’60, luogo di cui riparleremo in riferimento ai vari psi che lì dentro hanno lavorato, luogo che la vostra Olimpia ha visitato nell’anno della sua laurea e scoperto trattarsi di una piccola casetta con fiorellini all’ingresso. Questo solo per fare la figura della giramondo, of course, e per dirvi che molto del progresso pare accadere non tra i blocchi di cemento delle enormi città, ma lì dove le strade sono piccole e i tetti bassi. Fu che ognuno sceglie ciò in cui preferisce credere e in alcuni casi lo porta avanti tutta la vita, ispirato dal sacro fuoco della giustezza. Forse è stato una sorta di folie à deux condivisa con la psicomoglie, forse il movimento degli Yuppies del decennio successivo che ci voleva tutti rampanti e presi a bene nel realizzare noi stessi, forse il non troppo vecchio ma legittimo emendamento americano nel diritto alla felicità. Davvero non possiamo saperlo e come direbbe Wittengstein (molto caro peraltro anche a Steve), di ciò di cui non si può parlare, è mejo stasse zitti.

Quindi torniamo ai fatti, l’obiettivo di Steve e Insoo era tutto centrato sulla costruzione di una soluzione al problema, senza pensare al problema o meglio pensando a come in altre occasioni la persona con quel problema lo avesse già risolto e a cose di buono sapesse fare quella persona. Ma per dirla meglio, per loro era importante andare sempre a caccia delle eccezioni e cercare di partire da quelle per costruire un futuro meno problematico. Per dire, a chi soffrisse di una terribile timidezza generalizzata, individuare se ci fosse un contesto in cui non si presentasse e cominciare a sbandolare da lì. O per fare un esempio più harderello, chiedere a qualcuno che si mostra meditabondo sul togliersi la vita, “Come mai ancora non l’hai fatto? Cosa ti ha trattenuto?” a una persona molto depressa “Come fai a portare avanti le tue giornate dal momento che non ci vedi alcuna speranza?” Ora detta così può sembrare molto banale, dal vivo è una questione diversa, non priva di insidie. Si può però certo dire che sia sofisticatamente semplice, questo sì. Per i curiosoni, online si trovano le 100 domande più gettonate dalla Terapia centrata sulla soluzione, con relativa spiegazione. Giusto per farvi vedere come quando una cosa un po’ funziona, i discepoli cercano sempre di costruirci sopra un Vangelo.

Tra le cose usate da Steve ce n’è una, anzi due che trovo molto carine. La prima è la così chiamata “Miracle question” che recita più o meno così: Metti che stanotte succede un miracolo e che una grande bacchetta magica ha risolto il tuo problema durante la notte. Ti svegli e da quale piccolo indizio ti accorgi che il tuo problema non c’è più?” A cui penso la maggior parte di noi risponderebbe “dal fatto che non mi sento sto cazzo di peso sul cuore che mi fa svegliare come se fossi la reincarnazione di Cesare Pavese”, giusto? E qui Steve avrebbe incalzato cercando di farci formulare una risposta più semplice, del tipo mi accorgerei che non ho più il peso sul cuore perché non rimando più la sveglia ma mi alzo a farmi un caffè. Ed ecco che si comincia a costruire questo quadro di noi che stiamo meglio e con piccole cose molto concrete proviamo a trasportare questo quadro immaginario, nella bieca realtà e ci ritroviamo a farci il caffè, con magari sottofondo di podcast poesie di Pavese, ma comunque in piedi.

Altra cosa che trovo carina è la fase dei complimenti, sì esatto, i ohhh ammazza che bravo che sei stato a farti il caffè questa mattina! Che venivano dispensati dopo una piccola pausa che lo psi si prendeva a metà seduta. Sempre secondo me perché magari pure lui sentiva il bisogno di farsi un caffè, buttarci in mezzo una sigaretta, prendere prospettiva come quando una parola non ci viene subito in mente e dobbiamo stare un momento in silenzio per capire la parola che volevamo dire.

Poi troviamo le scale, usate per monitorare l’andamento della terapia e, di nuovo, per costruire insieme alla persona in problemi, un cono di luce sul prossimo passo da compiere per arrivare a quella che lui considera la prossima tappa e così fino alla tappa 10, in cui si suppone che vada tutto come vorremmo.

Enumerando la questione (enumerare è importante per ricordarsi le cose e far sembrare che stai tenendo il punto), i presupposti della terapia creata da Steve e coniuge, sarebbero grossomodo che:

Le persone devono voler cambiare

Le persone sono le più esperte e devono sviluppare i propri obiettivi

Le persone hanno già tutte le risorse e le forze a disposizione per risolvere i loro problemi

La terapia deve esse breve

E deve esse focalizzata sul futuro

Chiaro?

A questo punto uno si immagina il nostro Steve come un simpatico mattacchione dedito al consumo di the verde e prodigo di sorrisi. Invece manco pe niente. O almeno così ho sentito raccontare in un’intervista a tal Louis Cauffmann, psicologo belga che ce lo ebbe come maestro. Pare fosse un tipo piuttosto taciturno, la cui espressione preferita fosse “mmm”, mentre teneva le gambe accavallate e nella mia testa diventa subito Sherlock Holmes. Louis racconta che una volta gli fece un intervento su un suo intervento in seduta, tirando in ballo tutta la teoria sistemica, la società, l’astrologia orientale e occidentale, finché Steve non lo guardò e gli disse “Louis tu ci pensi troppo, prossima domanda”.

A Steve piaceva controllare quello che si può controllare, gli piaceva dire cose come “Il punto da cui guardi le cose determina ciò che puoi vedere e ciò che non puoi vedere. Un cambiamento di prospettiva è tutto ciò che ci serve per cominciare a cambiare”, a Steve piaceva lavorare, gli piaceva sua moglie e si direbbe fosse ben ricambiato, dal momento che la poverina è morta solo qualche mese dopo il marito, e si sa come funzionano queste cose, a Steve piaceva il linguaggio, nelle sue risorse che creano mondi, chissà che non sia per questo che è morto proprio a Vienna, lì dove il filosofo era nato.

Bene, per oggi abbiamo terminato anche se in realtà abbiamo solo aperto una pagina, delle moltissime che si possono aprire per guardarci meglio dentro. Stanotte però magari provate a farvela quella domanda miracolosa, potrebbe sempre muovervi qualcosa di stimolante. Nel frattempo che i pensieri si muovono, vado a mettere su il caffè e chissà che non muova qualcosa anche a me, mentre ci penso, tra una luna e un falò.

Olimpia Parboni Arquati

Contro il dominio della resilienza

La vita è quella cosa a cui per partecipare devi garantire l’iscrizione all’albo del dolore e pagare la tua quota, senza sapere a quanto ammonterà. Il dolore è quella cosa che ci cammina a fianco, senza sapere quando ci prenderà per mano e che ci rende fragili. Sì, fragili. Il contrario di resilienti.

Per chi ancora non lo sapesse, la resy, è un termine rubato all’ingegneria, per il quale certi materiali non si rompono con l’urto, ma incassano la botta, tornando alla condizione di partenza. Cioè se vogliamo rubare anche alla filosofia possiamo bussare anche alla porta di Cavallo Pazzo Nietzsche e tradurlo con ciò che non ti uccide troppo, ti fortifica. Oppure ancora possiamo fregarcene dei materiali e della filosofia, rimanendo fedeli all’etimologia, e dire che la resy è quella cosa per cui se casco dalla barca allora ci risalgo. Così, con nonchalance, praticamente da asciutto, senza scompigliare un capello, senza affogare un attimo, senza cagarmi sotto che magari non riesco a risalirci su quella dannata barca. Non c’è che dire, è una bella visione eroica questa che ci vede così granitici nel districarci dai dolori. Tutto un cadere da cavallo e risalirci graffiati ma intatti fuori e integri dentro, come se in pratica tutto il mondo ci dicesse che dobbiamo resistere alle disgrazie e uscirne fuori splendenti come coattissime fenici.

Ora io perché sono così contraria al diktat della resilienza, perché sono una rompicoglioni ()? Perché non sopporto i tatuaggi inneggianti al qualunquismo dai segni dell’infinito alle parole modaiole ()? Perché, sopratutto, mi dispiace, e mi dispiace in un punto molto profondo del mio cuoricino, che a botte di positivismo rischiamo di dimenticarci l’incredibile bellezza della vita, gloriosa proprio per il suo disordine, grandiosa proprio per la sua cavolo di caducità.

Tempo fa mi capitò un incontro con un eroe (i pazienti io li chiamo così) che venne da me dicendo che non aveva potuto dire a nessuno che sarebbe venuto da me perché se no avrebbero tutti pensato che era fragile (le parole precise furono in realtà “mezza pippa ar sugo“). E chiaramente non è stato e non sarà l’unico a paragonare una richiesta di aiuto a una dichiarazione di sconfitta. Ma la cosa vale ovviamente pure fuori dalle considerazioni sulla psicoterapia, vale in maniera trasversale, in tutti i contesti in cui la resy infesta la pianta della fragilità come ortica infestante.

Quello che rischia di succedere è che si avrà sempre più paura del dolore, anzi no, non del dolore, ma delle persone che lo provano. Si avrà sempre più paura dei tristi, dei piagnoni, degli scomposti, dei persi, degli scontrollati, dei perdenti. Paura di noi quando saremo simili a loro, quando saremo loro. Io credo che nel modo in cui sta resy ci viene prepotentemente proposta, si dimentichi sempre di onorare il momento di passaggio tra l’inizio e la fine di un problema. Come dire, una fiaba senza intreccio, obbligata al lieto fine.

Non è d’oro il finale, è d’oro ciò che sta in mezzo, la trama che al finale ti ci porta ma non ti ci catapulta come se il tuo dolore non avesse alcuna dignità. Tantissimo si può imparare dai momenti ardimentosi, ma non vedo come si possa pensare di arrivare alla cima senza prima aver scalato (nota del secchione, Cavallo Pazzo Nietzsche amava assai camminare sulle montagne e da sopra poi contemplare il panorama. Soprauomo, non superuomo perché aveva il pisello più lungo di tutti, così per amor delle parole).

Se non la finiamo di perdere interesse nel processo, rischiamo di demonizzare sempre di più i tempi del dolore, che sono lunghi come le ere, come tutte le cose che possono insegnare, dobbiamo prenderci il tempo per capirle. O per capire che non possiamo capirle e dagli stracci che ci sono rimasti, risalire sulla nostra piccola zattera di fortuna a navigare i tempi e le tempeste. Tenendo a mente che se mai usciremo dalla tempesta, non lo faremo rimanendo uguali a come ci eravamo entrati (semi cit del buon Murakami, che può piacere o non piacere, ma nel suo essere orientale, sicuramente smandruppa meno le palle con questa storia della fretta).

Abbiamoci pietà di come siamo fatti, portiamo rispetto ai tempi cupi, portiamo rispetto al modo in cui siamo fatti. Non di obiettivi aziendali da mettere sul tavolo a fine giornata, ma di carne, spirito e mestizia. E di fragilità, di morbidezza, di delicatezza. Siamo come gli scatoloni che trasportano cristalli con sopra l’adesivo, trascinati senza grazia da facchini troppo occupati per trattarci con i guanti.

Se ci togliamo anche la libertà di stare male e non vedere soluzioni, non ci togliamo solo l’occasione per parlare con noi stessi, ma ci tagliamo via proprio una fetta di vita. Anche da triste io posso sorridere ad un anziano che porta a spasso il suo cagnolino anziano pure lui, anche da triste io posso leggere una poesia e capirla, posso capire meglio il dolore del mondo, posso stufarmi di essere triste e cominciare a cercare il bandolo del matassone, tirando da varie parti, incontrando sempre nodi e ad ogni nodo fermarmi a riflettere o anche a piangere se è necessario.

C’è nel dolore sempre un momento di indicibile sconforto, di assoluto smarrimento. Ecco, credo che sia in quei momenti l’unica possibile rinascita. Più che dalle proprie ceneri, dalla foresta in cui ci perdiamo nella ricerca di nuova legna da ardere per tenere viva la fiamma dei giorni.

Fragile è chi pensa che essere fragili sia da deboli e chi vuole solo arrivare, senza prima concedersi di non conoscere la strada. Poi davvero non so voi, ma io preferisco essere nata fiore che essere nata acciaio.

 

Olimpia Parboni Arquati

Disturbo ossessivo compulsivo da relazione tua zia

La prima volta che ho sentito parlare di sta cosa sono stata buona. Cioè, ho sentito come un guizzo di voglia di fare a botte ma poi mi è passato. Mi sono sentita proprio come Begbie di Trainspotting quando si lancia la birra alle spalle mentre sta nel pub e fa quel rantolo che gli viene dal profondo mentre si riscalda le nocche. Poi l’ho sentita di nuovo e niente, invece del boccale mi è venuta voglia di fare il lancio del peso con tutto il fusto della birra.

Cominciamo subito dal peggio, gli esperti stanno lavorando su un’App che consentirà rapidamente di distinguere a che grado di ossessione compulsiva relazionale ti trovi tu o il tuo innamorato, dandoti poi istruzioni su come procedere. Ecco questa cosa l’ho letta cinque minuti fa e ho ancora le mani che mi formicolano. E sì, mi pare evidente che non sia una persona dal carattere troppo morbido, ci sono cose che mi fanno incazzare proprio come si incazza mio zio Michele che ha 80 anni mentre sta seduto coi compari sulla panchina e discutono degli acquisti calcistici, alternando lunghi sbuffi a lunghissimi insulti sparsi. 

Non lo faccio solo perché arrabbiarmi mi viene facile, in questo caso lo faccio perché davanti a certe perversioni del Positivismo bisogna pur lanciare qualche boccale volante e vedere che succede. Ma vediamo di fare i seri e fatemi procedere con la spiegazione del mio nemico di oggi. Dal 2014 si parla di (anzi, “le ricerche scientifiche rivelano che…” e su questa mi si chiude la prima coronaria) “Disturbo ossessivo compulsivo da relazione” quando in pratica tu o il tuo innamorato passate un sacco di tempo a chiedervi se state facendo la cosa giusta. Se non riuscirete a trovare qualcuno di migliore, se rifuggite come la peste le commedie romantiche, le uscite a quattro, i cuoricini d’argento da appendervi al collo e se conoscere la sacra famiglia della controparte vi produce una sensazione che pare un potente ceppo di influenza intestinale. Quindi insomma, L’Intelligencija vuole che gran parte dei gggiovani adulti si smandruppino di segoni mentali ogni volta che si ritrovano in coppia. Ossessionati dalla giustezza della relazione si smandruppano doppiamente l’anima con domandone da terzo segreto di Fatima tipo chiedere conferme a tutti, panettiere di fiducia compreso, per essere rassicurati che stiano andando bene. E così la mia testolina che ha tante carenze ma forse non patisce di poca fantasia, si ritrova a immaginare scene di te che telefoni a tutta la rubrica dicendo “Oh quanto tempo eh, ma senti un po’, secondo te io e Carletto stiamo bene insieme? Chiedi pure a tua cugina già che ti trovi e fammi sapere. Baci baci.”

In pratica tutti coloro che si interrogano così tanto sul valore della propria relazione, al punto che tali segoni mentali inficiano la qualità del resto della vita, sono affetti da tale disturbo. Chiarissimo, no? Non siamo un po’ vigliacchi, non abbiamo paura di scegliere, non siamo in fondo comuni mortali figli dei nostri tempi che si fanno delle domande sull’amore. No, siamo dei maniaci del controllo che tengono a bada l’ansia rompendo il cazzo al prossimo con i propri suddetti segoni mentali. Molto bene, se le cose stanno così allora io mi metto a coltivare il mio orto come Candido di Voltaire e buonanotte a tutti. Strappo via tutte le mie buone intenzioni e mi dedico alla cura e alla salute del prugno selvatico che mi infesta il giardino, tagliando tutti i rami secchi che mi pare con la motosega e la maschera di Brian così per darmi un tono.

Ma ragazzi, ma Intelligencija, ma stato dell’arte della psicologia, ma come vi viene in mente di non consultare un appassionato di sociologia prima di gridare alla patologia? Io credo davvero che ogni bravo psi dovrebbe avere in rubrica almeno un amico saggio abbastanza che si diletti nelle letture di altri campi, formalmente lontani dalla psicologia ma indispensabili. A tal proposito vi consiglio, per chi non l’avesse mai toccato, la lettura di Amore Liquido di quel simpaticone illuminato di Bauman. Così, a scatola chiusa e senza spoiler.

Che poi quando uno si mette a criticare le definizioni già esistenti pare che debba subito passare dall’altra parte, cioè dalla parte di chi cambia un nome per un altro. E io non voglio. Non penso di aver bevuto un caffè di verità infusa stamattina a colazione né mi sento più capace di altri a dare i nomi alle cose. Sono solo una psi qualunque in un puntino dell’universo a cui piace normalizzare tutto quello che si può normalizzare perché se mi appoggio a tutte le malattie che trovo finisce che oggi mi sento sollevato, ma domani mi sveglio zoppo. 

Se volessimo fare del bene ai nostri giorni credo che dovremmo interrogarci più profondamente sul senso della paura in tutte le sue manifestazioni. Però quando la paura tocca l’amore allora io mi tiro indietro, non riesco proprio a mettere in relazione la forza che move il sole e le altre stelle con i manuali di psicodiagnostica. Perché se la nostra voglia di trovare significato non riesce a trovare l’umiltà per abbassare la testa nemmeno davanti all’amore, miei cari, siamo fritti e siamo pure un po’ fottuti. Fottuti dalla nostra stessa paura. O peggio ancora, dalla paura che l’amore ci farà paura. Beh, sapete che c’è, è inutile tenersi il dubbio, le relazioni fanno e devono fare un po’ paura, altrimenti finiamo per portarle allo stesso livello della scelta delle arance dal fruttivendolo. Se non ti muove niente vuol dire che lo stai facendo per solo per sport, a quel punto tanto vale darsi veramente all’ippica, facendo scommesse sulle vittorie di una gioco guidato da qualcun altro e non da noi.

Forse sarebbe lecito allargare l’orizzonte e prendere in considerazione che i gggiovani adulti si ritrovano in un mare di merda esistenziale. In pochi sanno cosa fare “da grandi”, dove andare, come guadagnare, come definirsi in società. Finché queste domande rimarranno tanto aperte e tanto grosse ritengo che patologizzare la cosa più naturale che abbiamo sia un errore poco umano. Come mettere i nostri sentimenti nel vetrino del microscopio e cercare di contare da quanti atomi sono composti.

Credo anche che in tempi come questi (come direbbe mio zio Michele alle panchine) finché manca una definizione di base di se stessi si corre il rischio di appoggiarci così tanto al povero amore che poi per forza che diventa malato. Se mi definisco in base a niente mi rimane solo quello. Insomma, altro che avanguardia, qui si torna indietro di tanti secoli, dove poco valeva chi fossi, l’importante era accoppiarsi in qualche modo per seguire la naturale evoluzione dei mammiferi. Solo che questo ritorno non ce lo possiamo mica concedere negli anni 2000, perché il mondo vuole che siamo anche tanto altro e quel tanto altro ci rimane difficile. Non lo so se mi sono spiegata, forse no perché le mani mi formicolano ancora e oggi ho aperto il megafono senza regolare il volume.

Ragazzi belli, se volete appoggiarvi a questi nuovi mostri lo potete fare, ma il rischio è quello di perdere di vista per sempre il vostro tentativo di definire non la malattia che vi attanaglia, ma l’amore stesso, che forse è semplicemente ineffabile, tuttavia irresistibile. Quindi se qualcuno vi ha affibbiato questo nome, cercate prima nelle altre aree della vostra vita, se siete allo sbando in tutti i sensi allora lasciate stare il disturbo ossessivo da relazione, perché l’unica ansia che avete è quella nei confronti di voi stessi e di tutto quello che di voi stessi non state riuscendo a fare.

La domanda non è se la vostra relazione sia bella abbastanza da continuare a vivere, ma se la vostra paura generale non è troppo grande da trasformarsi in ansia di vivere che mette in dubbio tutto quello ciò che vive. Ah, e non so come dirvelo, ma nessuno saprà mai se i vostri amori siano giusti veramente, io so solo che innamorarsi prevede lo stesso rischio di una mano di poker, prevede fede, e dubbi e domande e paure. Ma sopratutto prevede che voi partecipiate al sentimento, non che passiate la responsabilità al primo manuale di definizioni che trovate sull’ultima rivista di psicologia.

L’unica cosa che dovete veramente cacciare fuori sono le vostre palle, l’ansia riservatela per i veri mostri che la vita ci riserva. Se poi vi sentite comunque scossi dai segoni mentali, sappiate che durante l’università ho lavorato in un sacco di bar e ho una fantastica collezione di boccali da spaccare insieme, mano nella mano, contro il muro di un’ignoranza spaventata che ha l’ossessione di farsi scienza.

 

 

 

Narcisista o coglionazzo?

Donne, amiche, sorelle, venite qui un attimo che devo dirvi un segreto. Sento già che mi odierete molto per quello che vi dirò ma è una cosa che mi tengo dentro da tanto tempo e comincio a sentire che dentro non mi ci entra più. Io, che certo ho un caratteraccio e certo non sopporto un sacco di cose, ho sviluppato un’idiosincrasia manco troppo sottile per tutte quelle cose che trovo scritte sugli uomini, questi narcisisti.

Nelle mie notti insonni leggo i libri, in quelle ancora più insonni capita che mi perda come un timoniere senza rotta, nel mare grosso dell’Internèt e lì dentro ci trovo un sacco di parole pesanti che però non hanno peso alcuno. Recito in disordine: “Come far innamorare un narcisista?”, “Come fuggire da un narcisista?”, “Il mio uomo è narcisista come devo fare?”, “Ma i narcisisti si possono innamorare?”, “Ma i narcisisti la fanno la spesa, ai narcisisti crescono le unghie, il piccante lo mangiano, almeno ai cani, i narcisisti, un po’ di bene glielo vogliono?”. Ecco io queste stronzate proprio non le digerisco. Anzi, queste cose mi fanno venire il sudorino freddo alla punta delle dita e mi fanno risuonare i neuroni come una pila di piatti che mi casca sull’anima e fa un sacco di rumore.

Perché? Beh in primis perché ovviamente tendo alla polemica come un fiume tende al mare ma anche perché queste informazioni sono diseducative e finiscono per costruire una realtà malata in cui milioni di povere donne sembrano costrette a subire le torture di un altro milione di uomini che, poverino, non ce la fa a trattarvi bene perché afflitto da un male incurabile. Come dire eh ma che ci vuoi fare, ha il diabete, mica lo possiamo curare. Mi maltratta ma non ho scampo, posso solo fare la vittima delle circostanze e crogiolarmi con le amiche durante gli aperitivi, gridando stronzo stronzo tutte in coro. Oppure posso passare ore a cercare lo psiqualcosa di turno che ti racconta cose a caso che però ti rincuorano perché ti sembra di ritrovare la tua storia tra le righe di qualche forum di disperate.

Non capitemi male, è stupendo quando ci sembra di trovare il significato delle cose, quindi anche il significato del male che ci facciamo fare ma commettiamo atto di presunzione nel momento in cui giustifichiamo il dolore con una diagnosi clinica. Il male non va capito, non va giustificato, va solo tenuto a quattro o cinque spanne dalle proprie chiappe. I disturbi di personalità, care donne, amiche, sorelle, sono una roba molto grossa e molto pesante. Quelli della mia tribù sono i primi a sbrodolare sentenze quindi non posso certo dire che sia tutta colpa vostra se vi viene da usare questi nomi così ingombranti con la leggerezza di una libellula mentre plana sulle acque.

I casi sono grosso modo due: può darsi che il vostro principe pallido sia effettivamente abitato da un grave problemone che risponde al nome di disturbo narcisistico della personalità. Se così fosse allora vorrebbe dire che non è che tratta male soltanto voi, ma che mantiene un modus vivendi rigido come un bastone con tutte le persone che conosce e in tutto quello che fa. Potrebbe anche avere altri problemoni, i disturbi di personalità sono più delle virtù teologali e comunque gli esperti ne “scoprono” di nuovi come quelli della Nasa scoprono nuove stelle. Quindi se prima ti vuole e poi scompare è uno schizoide, se si rintana in casa è un evitante e poi ancora e ancora. Ah certo, non dimentichiamo che ogni problemone ha diverse sfumature, quindi potrebbe essere un narcisetto covert oppure anche overt eh! Se non li avete mai sentiti nominare allora aprite subito Google e scoprirete che già il primo risultato si accompagnerà con qualche bel articoletto in cui qualcuno spiega sintomi, cause, conseguenze e come smascherarli. Oppure…

Oppure ci troviamo davanti a un’altra cosa. Non meno diffusa, non meno foriera di mali né meno insisdiosa: la coglioneria. Ebbene sì donne, amiche, sorelle, è possibile. La coglioneria, come qualsiasi altro problemone, possiede varie sfumature. Quindi ecco che nel nostro cammino potremmo imbatterci in coglionazzi semplici, coglionazzi agressivi, coglionazzi agressivi e maleducati, coglionazzi agressivi, maleducati e pure brutti. Non vi risponde più? Vi maltratta e pensa solo a se stesso? Vi scredita sempre e non vi fa mai sentire belle? Ha bisogno di essere ammirato ma rimane sordo ai vostri complimenti? Se avete risposto sì a qualcuna delle precedenti allora lasciatemi dire che qui le uniche matte in caso siamo noi. E no, non ci provate a buttare in mezzo la sindrome della crocerossina che vi obbliga a soffrire per la coglioneria di qualcun altro.

Nel momento in cui deleghiamo la responsabilità di ciò che accade a qualcosa che non possiamo controllare, ci mettiamo automaticamente nella condizione di vittima incatenata alle circostanze. Ci laviamo le mani dalle nostre scelte un po’ del cazzo, fatte molte volte più per orgoglio che per amore e di sicuro entriamo in un tunnel molto lungo e molto scuro in cui non esistono colpevoli ma solo condizioni attenuanti che ci fanno sentire meno stupide per non riuscire a dire basta.

Dichiarare il fallimento costa un sacco di fatica, lo so. Nessuno ci restituisce il tempo, le lacrime e le parole ma ognuno è responsabile della propria felicità più di quanto si è soliti pensare. Se il vostro uomo non vi ama non è colpa della malattia, non è nemmeno colpa sua, figuriamoci vostra. L’amore accade e non è mai veramente colpa di nessuno se smette di accadere. Non cercate nomi che possano sostituire il vostro dolore con una giustificazione, cercate solo il coraggio di appendere il cartello con su scritto bancarotta e cuore infranto perché è tutto quello che vi serve.

Certo, il cammino della donna timorata è tempestato da teste di cazzo però cerchiamo di chiamarle come sono, altrimenti quelle con il narcisetto scalpitante dentro finisce che siamo noi, ogni volta che facciamo di tutto per rimanere attaccate come zecche al coglionazzo di turno perché non ci vogliamo arrendere al fatto che ogni rifiuto ci lascia dentro una ferita. E allora prendiamoci cura di noi, affoghiamolo di parolacce se serve, ma non pensiamo che sia lui a doversi curare e noi la croce bianca. L’unica croce è quella che ogni giorno decidiamo di caricarci sulle spalle e dalla coglioneria spesso si guarisce meno bene che dalla psichiatria.

 

Cose che mi fanno incazzare

Non sono mai stata una persona di buon carattere e a questo punto non penso che lo diventerò mai. Sono una persona piena di capricci, di ansie e di fissazioni. Sono rancorosa, polemica, presuntuosa e votata al puntiglio sugli altri e su di me. Sono anche una che fa sempre tardi, che non rispetta le scadenze e faccio fatica a seguire le regole. Ma c’è una cosa su tutte che mi rende antipatica, io sono una persona che s’incazza quasi ogni giorno.

Praticamente ho un’incazzatura diversa per ogni giorno del calendario e spesso ne ho più di una per ogni santo. Io mi incazzo, sbuffo, alzo gli occhi al cielo, borbotto e intervengo dicendo la mia pure quando nessuno la vuole sapere. Ma la cosa peggiore è che quasi sempre penso di avere ragione quando m’incazzo. E lo penso per un motivo soltanto, perché ci sono mille cose che mi fanno sentire una cosa dentro che sembra un vulcano e venire voglia di urlare parolacce in un senso e poi al contrario.

Adesso ve ne racconto qualcuna.

Mi fanno incazzare le giornate di pioggia quando sto in giro e mi fanno incazzare le giornate di sole quando invece devo stare a casa. Quelli che ti vogliono vendere gli ombrelli senza pensare manco un secondo che magari in borsa ce l’hai e magari non sta nemmeno piovendo. Mi fa incazzare che perdo l’ombrello ogni volta che piove e poi smette. E tutte le cose che perdo ogni volta che esco e faccio tardi la sera, maglioni, cappelli, accendini, soldi e a volte anche la dignità. O comunque, almeno, la macchina.

Mi fa incazzare quando mi faccio la doccia e in bagno fa caldo e mi devo mettere i jeans e mentre ancora mi asciugo comincio già a sudare, quindi i jeans col cazzo che me li riesco a infilare. Mi fa incazzare la tenda della doccia che si appiccica da tutte le parti mentre tu vorresti soltanto 10 minuti in cui stare tranquilla come fanno le tipe delle pubblicità dei bagnoschiuma che pare che nel loro cesso invece c’è il paradiso del Grand Hotel. La gente che lascia i capelli dentro la doccia mi manda fuori di testa come quella che lascia il dentifricio aperto e lo spreme dalla metà. I pigri che non fanno la differenziata, i fissati che la fanno sempre e quelli che lavano i piatti con pressapochismo. Quelli che mentre camminano e parlano si devono a un certo punto fermare per completare la frase e tu stai dietro e praticamente li tamponi e ti guardano pure male.

Mi fanno incazzare quelli che comprano ancora il Manifesto e quelli che sono fascisti non ne parliamo. I razzisti ancora di più, come se uno poi lo scegliesse il punto del mondo in cui nasce, coglioni. Ma anche quelli buoni con tutti mi fanno incazzare perché non scelgono mai e alla fine odiano tutti. Quelli che non cucinano, quelli che si sentono bravissimi a cucinare, quelli che non improvvisano niente e seguono tutte le ricette per filo e per segno forse mi fanno incazzare ancora di più.

Le luci di natale a fine ottobre, le foto di natale a dicembre, le foto del fidanzato o della fidanzata tutto l’anno. Ma a noi, a noi dico, ma che ce frega? L’amore mica è un riscatto sociale, quindi non serve insistere a dire che siete felici che magari agli altri fa pure piacere o comunque indifferenza o comunque ancora siete ridicoli e basta.

Mi fa incazzare chi per strada mi urta per sbaglio e non chiede scusa e la gente che spinge i tornelli come se volesse tirarteli in faccia. Gli arrampicatori sociali che non lo sanno, ma si vede benissimo il gioco che fate, non lo vedete che lasciate la bava a ogni passo che fate?

Quelli che parlano sempre e quelli che invece non parlano mai perché sembra che nessuno al mondo abbia i loro problemi, invece sono sempre simili a quelli di tutti gli altri. Quelli che dicono “questione di principio” e “onestà intellettuale“, quelli che per ogni cazzata che la vita non dà attaccano con “mai una gioia”, ma basta. Dite due parolacce e fatela finita perché non fa più ridere. Mi fanno incazzare moltissimo quelli che si piangono addosso quasi quanto quelli che ce l’hanno fatta e ti raccontano tutto per filo e per segno che manco i bambini alla mamma per farsi dire bravo. Quelli che dicono “che schifo” e non l’hanno mai assaggiato, quelli che col Bloody Mary ci farebbero il sugo per gli spaghetti.

Il mal di denti mi fa incazzare moltissimo, il mal di schiena lo stesso, il torcicollo non ne parliamo. Le case con le enciclopedie all’ingresso e l’argenteria in salotto e le vacanze a Cortina e l’estate in Sardegna. Quelli che chiedono sempre scusa e quelli che non lo chiedono mai, quelli che dicono sempre grazie e quelli che non l’hanno mai detto.

Mi fa incazzare la signora della profumeria qua davanti che non ride mai e pensa sempre che gli devi rubare qualcosa quindi ti segue. I fobici dei cani, quelli che ti sgridano perché tu hai un cane e loro un bambino, anche se il tuo cane si fa i cazzi suoi e il bambino lo stesso. Quelli precisi con i soldi e quelli che si dimenticano sempre che glieli hai prestati.

La gente che tiene cartelle ordinate sul computer mi fa incazzare, anche quelli che tengono le bollette nelle cartelline tutte divise e trasparenti e trovano sempre tutto a partire dal 1950. I maestri e i loro discepoli, le sette, le comitive, le gang mi fanno incazzare.

Quelli che ti fanno alzare dal posto invece di sedersi su quello vicino che comunque era tuo ed era pure più comodo. Gli stizziti, i delusi d’amore, quelli che sono tutti stronzi e quelli che ci credono peggio dei fedeli in dio. I puntuali che quando sono pronti aprono la porta mentre tu stai ancora in mutande.

Mi fa incazzare il traffico e la gente che nel traffico non ci sa stare. Quelli che della musica sentono solo quello che passa la radio e quelli che conoscono tutta la musica e te non sei nessuno. Chi legge troppo e chi non legge per niente, quelli che se dici una frase più lunga di un solo respiro ti dicono che palle e che sei pesante. Quelli che si lamentano in ascensore, in autobus, in fila al supermercato, alle poste. Mi fanno incazzare gli angoli dei tappeti che si girano sempre e i quadri che non stanno mai dritti e i vestiti sporchi che non finiscono mai. La polvere sui lampadari, la polvere sotto il letto, la polvere sui ricordi e sotto le zampe delle sedie.

Mi fai incazzare tu, sì, proprio te che pensi di non valere un cazzo ma lo sai che non è vero perché fai come me la maggior parte del tempo.

E io, che mi incazzo così tanto, mi incazzo con tutto e con tutti, lo faccio soltanto perché anche io, sì, proprio io faccio tutto quello che mi fa incazzare continuamente e non mi perdono mai.

Allora oggi e soltanto oggi io perdono te e quasi quasi pure me stessa e invece di incazzarmi vorrei tanto abbracciarti e dirti che va bene così. Va bene abbastanza il modo in cui sei fatto, però devi guardarti dentro, perché da vicino siamo tutti normali, siamo tutti simili, forse solo un po’ meno speciali di quanto pensiamo. Non ti incazzare.

Olimpia Parboni Arquati