“Quindi tu da piccola devi aver detto un sacco di bugie”, questo il commento meraviglioso del figlio di un’amica che all’epoca aveva 5 anni, quando gli raccontai brevemente la storia di Pinocchio e del suo naso. In realtà è una cosa che mi riesce veramente male e devo dire che negli anni si è rivelato un gran difetto e un discreto pregio insieme. Ve lo accenno perché scrivere queste righe è per me un gesto molto difficile, adesso vi spiego come mai. Alcuni mesi fa, forse un annetto ormai, mi è venuto in mente di introdurre questo spazio qui delle letterine perché oh, è una rubrica dei giornali che ho sempre letto con grande interesse e nel mio piccolo volevo fare lo stesso. Evitando quelle risposte stracciapalle da psicologa in cattedra o quelle stile forum degli ipocondriaci in cui ti dicono “non abbiamo informazioni sufficienti per risponderle, si rivolga al suo medico”, ma provando veramente a rispondere qualcosa che potesse essere utile per qualcuno.

Non mi ricordo chi mi disse di non fare come Natalia Aspesi che a un certo punto si scriveva le lettere da sola e io risi molto promettendo che non l’avrei mai fatto e poi comunque non saprei scrivere con uno stile troppo diverso quindi mi avrebbero sgamato subito. Le cose sono andate in un altro modo, che di lettere ne ho ricevute tantissime, lunghissime, bellissime, personalissime. E allora io che ho fatto, mi sono sentita felice come il coniglio Pasqualone per parecchi mesi, mi sono rimboccata le maniche della tuta da casa e ho risposto a qualcuno. Poi però ho smesso. Ho smesso perché sono stata pigra e forse anche un pochino stronza. Ho smesso perché mi sono spaventata di tutte quelle parole e ho smesso perché ho avuto paura di non saper rispondere.

In questi mesi non ho mai smesso di pensare che il giorno dopo l’avrei fatto, ma quel giorno non è arrivato mai. Ho pensato anche di rispondere con enorme ritardo, inventandomi scuse varie, dalla cartella spam che me le aveva nascoste, al virus, al braccio ingessato. Ma la verità è soltanto quella che ho raccontato. Quindi vorrei chiedere scusa, se per caso lo stessero leggendo, a quelle persone che mi hanno detto tanto e sono rimaste con niente. So che non vi avrebbe cambiato la vita, ci mancherebbe, però che scorrettezza in ogni caso.

Se quel giorno non è mai arrivato, è arrivato questo in cui mi e vi propongo di ricominciare da dove eravamo rimasti e di permettere ad altre storie di trovare uno spazio. E anche se non è nella mia natura, vorrei mettere delle condizioni perché so che possono aiutare a non farmi ritrovare a chiedere di nuovo scusa tra un altro anno.

  • Che mi diate l’ok a renderle pubbliche, ovviamente togliendo tutti i dati personali a meno che non vogliate metterci il nome. In questo modo vinciamo entrambi. Se avessi due o tre vite una la passerei a rispondere a chiunque su qualunque tema, ma le ore della giornata sono poche quindi il regalo deve essere reciproco.
  • Che siano brevi abbastanza da poter essere pubblicate per intero. Non perché la lunghezza sia cosa da temere, ma devono poterle leggere tutti, anche i meno allenati a leggere e non vorrei mai fare un lavoro di editing in cui taglio io parole vostre.

Le condizioni sono solamente queste due, per quanto riguarda la fiducia vi do la mia parola personale e anche professionale che non ne farò mai e poi mai nessun utilizzo diverso da quello che vi ho detto e che il vostro nome rimarrà un’informazione segreta come fosse della CIA.

Come ogni regola, anche in questa ci sono delle eccezioni e per spiegarlo userò un esempio di una scrittore che mi piace tanto, Goffredo Parise, che per un anno tenne sul Corriere della Sera, una rubrica del genere. Di norma non rispondeva mai a quelle anonime, nel mio caso risponderei anche senza pubblicare nulla, a lettere come quelle di un tale Michele, che si firmò soltanto con il nome a cui Parise rispose lo stesso perché in quelle righe gli parlò della sua voglia di scendere dal mondo, dando una delle risposte più semplici e belle ed eleganti che io abbia mai letto: «Mi dispiace molto che lei non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato da vivere (qualunque essa sia, sempre bella appunto perché imprevedibile come il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo».

L’indirizzo è questo: olimpiaparboniarquati@gmail.com

A presto,

Olimpia

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